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 2020  ottobre 10 Sabato calendario

1QQAN40 QQAN30 Intervista a Orietta Berti

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Ai funerali di Stalin trasmessi in piazza partecipava tutta Cavriago. Non solo i rossi, ovviamente in lacrime, ma anche i democristiani, perché la morte del baffone sovietico era pur sempre un evento interessante in quella provincia degli anni cinquanta dove non capitava mai nulla. Orietta, che aveva dieci anni, giocava e scherzava con l’amica Sofia. D’un tratto un omone indignato la prese per un orecchio e la consegnò alla madre perché le sue risatelle disturbavano la solennità del momento. La genitrice che credeva granitica nel Pci lasciò partire due scapaccioni indignati. Tanti altri ne prese la piccola Orietta Berti, che era indomita con le biciclette e il taglio dei capelli, come ricorda nella piacevole autobiografia, Tra bandiere rosse e acquasantiere. Il titolo, oltre a sottolineare l’orientamento politico che garriva in quella zona, accenna alla passione per l’attrezzo religioso che la cantante colleziona insieme a molte altre cose, dalle scarpe con il tacco altissimo, alle bambole, alla biancheria intima, per quella irresistibile passione all’accumulo che caratterizza i gemelli (segno zodiacale) e anche per un bisogno tutto proustiano di conservare il tempo perduto.
Nata in quell’Emilia sanguigna, dove la fede politica era forte quanto la canicola d’estate e il freddo d’inverno, avrebbe potuto diventare sarta o maestra se non avesse avuto un padre che da giovane aspirava alla lirica e credeva nel suo talento. L’Italia degli anni 50 che Orietta racconta è quella che traspare nei romanzi di Guareschi, impetuosa, litigante, ma fondamentalmente bonaria. Ancora così povera che tutti devono inventarsi un doppio lavoro (la madre di Orietta lavora in una pesa pubblica e di sera cuce collant per il calzificio Bloch), ma vitale, speranzosa, pronta a inventarsi dal nulla un boom che sorprende non pochi economisti. Lei è una dei tanti operosi artefici di questo miracolo. Vi contribuisce con le sue corde vocali e con una voce che trasmette letizia. Comincia a canticchiare sulle note di un registratore Gelosino. Poi prende lezioni da una pianista locale e dal maestro Neri (lo stesso di Carmen Villani, altra icona di quello showworld emiliano in bilico tra il pecoreccio e il sublime) e tutti scoprono che ha una gran voce, perfetta per il canto melodico italiano. Un po’ rossa e un po’ devota, raccoglie i primi successi cantando le traduzioni di Suor Sorriso, la domenicana che scalò le hit parade europee prima di finire malissimo (smonacata, depressa, suicida). 16 milioni di dischi, 11 Festival di Sanremo. Canzoni cult come Quando l’amore diventa poesia o Finché la barca va. Coverizzata in tutto il mondo, dal finnico al giapponese (Io ti darò di più è Seimei kakete-o). Trasmisisoni tv, film (da Corbucci ai Mostri di Risi, in coppia con un trucido Tognazzi), ma anche figurine, biscotti, cavatappi, caricature sexy su Menelik, come tutte le star nell’era della loro riproducibilità tecnica. Con misurata nostalgia e una grande carica d’ironia, Orietta Berti rievoca i successi, le ingiustizie, le fatiche, gli abiti, e le grandi gioie della vita quotidiana, l’amore per gli animali (due cani e nove gatti). Il suicida Tenco lasciò scritto su un biglietto che era ingiusto che Io, tu e le rose di Orietta Berti andasse in finale, e per questo si toglieva la vita. Suicidio o no che fosse, lasciava una sgradevole stigmata sulla collega emiliana, avallando la sufficienza con cui la critica la trattava. Il pubblico popolare la amava, ma se indossava un abito alla moda di Mila Schön, subito scattavano le parodie di Noschese. Forse perché era troppo genuina, troppo monogama, troppo educata per un mondo che si preparava all’ordalia del ’68 in cui tutto ciò che era pacato doveva essere travolto. Lei, però, ha avuto il coraggio di essere sempre fedele a se stessa, ai valori solidi come il dialetto o il parmigiano, e soprattutto di essere un’artista di massa che non ha mai ceduto alla volgarità del successo e del lusso, virus letale della razza vip. Esempio concreto dall’autobiografia: una giornalista in visita nella sua casa di Montecchio ironizza sui mobili Aiazzone. Innanzitutto non sono Aiazzone, spiega Berti, ma anche se lo fossero non c’è bisogno di sprezzo sarcastico, perché per molti milioni di italiani sono l’unico sudato arredo. Sicché meritano rispetto. Onore a Orietta, che anche grazie a Fazio e Labranca, ha svelato nella seconda parte della sua fulgida carriera un irresistibile fascino intelligente e autentico.
Ha girato il mondo. Ma alla fine è sempre tornata a Montecchio, perché?
«Ho avuto la smania di partire, viaggiare, conoscere. Ma la casa è come una calamita che mi attira indietro. Mi piace stare nelle mie stanze, nel mio giardino, con i miei animali, preparare da mangiare. La vita semplice che facevano mia madre, i miei nonni, e che per me è un inconscio modello di serenità. È quella forza misteriosa che mescola nostalgia, bisogno di sicurezza, ricerca delle radici e che spingeva Ulisse a tornare nella sua Itaca, nonostante le lusinghe dell’ignoto e la fame di avventura. Non so dare un nome né una spiegazione a quel bisogno. So solo che lo sento potentissimo dentro di me».
Ha nostalgia del mondo in cui è nata?
«Un po’ sì, perché quell’atmosfera non tornerà mai più. La mia infanzia è stata bellissima. Sono cresciuta nel mondo semplice ma vitale di Guareschi. I comunisti da una parte e i democristiani dall’altra che battagliavano su tutto come Peppone e don Camillo. Salvo poi aiutarsi gli uni con gli altri. Perché al di là delle fedi politiche, incrollabili, c’era la solidarietà, il bisogno di pace, lo spirito di appartenenza a una comunità. Il richiamo del campanile».
Niente strascichi della guerra civile?
«Anche a Cavriago la guerra ha lasciato tanti morti. Ci furono esecuzioni sommarie e vendette. Ma ero troppo piccola per avere una visione chiara delle cose. Nel ricordo prevale il senso di solidarietà della ricostruzione che poi ha portato al boom economico. E il brio della musica leggera che è stata, spesso, una gioiosa colonna sonora dell’Italia che si rimboccava le maniche e rialzava la testa».
Per via di sua madre, che era un’incrollabile compagna, lei stava dalla parte dei comunisti?
«La liturgia del primo maggio e delle altre manifestazioni operaie mi riempiva di eccitazione. Ma l’esperienza più bella era la Casa del Popolo. I bambini degli anni Cinquanta avevano pochissimi svaghi. Quel luogo, invece, era un piccolo paradiso. Ci si passava i pomeriggi. Portavamo la merenda. Ballavamo. Giocavamo. Per i più grandi c’era un musicista a disposizione che insegnava uno strumento. Mettevano su i dischi, ma non immaginatevi roba da socialismo reale… lì ho sentito per la prima volta Paul Anka, per esempio. E poi c’era una biblioteca fornitissima, che stimolò le prime letture. C’erano i classici russi belli allineati. Anna Karenina, I fratelli Karamazov, Oblomov affetto da spensierata pigrizia. Erano romanzi bellissimi, l’unica cosa, per me bambina, è che mancavano di gioia, un ingrediente della vita e dell’immaginazione di cui ho sempre avuto bisogno».
Ricorda le prime letture dell’infanzia?
«La mamma mi leggeva le favole nell’ufficio della pesa pubblica dove lavorava tutto il giorno, dalle sei di mattina. A scuola mi portava papà, ma al pomeriggio stavo con lei nel suo ufficio. Era un ambiente bello, si stava al caldo. C’era una mitica stufa Becchi di cotto, con i cassettoni, la mamma ci metteva le bucce di mandarino sopra perché l’aria fosse sempre profumata di buono. Il suo mondo letterario si nutriva di forti contrasti. Leggeva Noi donne, il settimanale comunista che parlava di battaglie civili, diritti femminili, autori e autrici impegnate, che noi bambine andavamo a vendere casa per casa. Però le piaceva anche sognare con la letteratura rosa, storie romantiche che stemperavano le fatiche del lavoro e la serietà dell’impegno politico. Il mio nome, Orietta, deriva dalla sua passione per Liala».
Si leggeva molto in casa sua?
«C’era fame di cultura. Come tanti in terra emiliana, mio padre amava l’opera. La nonna, invece, era un’appassionata dei romanzi che si compravano a puntate in edicola. Ma dato che non vedeva molto bene, li faceva leggere a me. Lei si metteva a lavorare a maglia e rammendare, insieme ad un’amica, che veniva dopo cena a casa nostra, dalle otto alle dieci e mezza. Loro sferruzzavano e io cercavo di interpretare ad alta voce trame complicatissime di amori traditi e impossibili. Il ricco che perde la testa per la fanciulla nullatenente. Oppure viceversa. Colpi di scena. Tradimenti. Fughe. Duelli. Poi c’era il lieto fine che riconciliava i sogni con le avversità della vita».
Il primo libro importante?
«La noia di Moravia è il primo che ricordo».
Quello che più ha amato nella vita?
«Guerra e pace per lo spaccato di vita e di costumi che viene raccontato in quella meravigliosa storia d’amore. Ma il più amato in assoluto restano le poesie Non sono nato tardi di Evtushenko… lo lessi da piccola alla Casa del Popolo e non trovandolo nelle librerie da acquistare, decisi di ricopiarlo interamente in un quaderno che conservo ancora con tanto affetto. Le sue poesie sono piene di speranza, orgoglio, forza. Versi come questi "La mediocrità è innaturale,/come innaturale è la menzogna.... Fa vergogna non essere grandi./Ognuno deve esserlo!", per una ragazzina nata in provincia furono un pungolo magnifico, solenne».
Quali altri poeti ha amato in giovinezza?
«La sonorità della poesia è vicina alla canzone. Ho amato la freschezza della Deledda, la malinconia di Pascoli. E spesso rileggo Dante. La sua Commedia oltre ad essere "divina" è umanissima. Racconta passioni, tormenti, amori tragici. I mali d’Italia che sono gli stessi nonostante siano passati sette secoli. In Dante c’è anche una punta di dolcezza personale. Nel canto IV del Purgatorio cita la pietra di Bismantova, dove nel 1967 sono andata a sposarmi».
Quale eroe di romanzi le sarebbe piaciuto essere?
«Sicuramente Elizabeth di Orgoglio e pregiudizio. E’ una donna borghese dell’epoca ma comunque forte, intelligente, arguta, diretta, onesta e molto determinata… qualcosa di anomalo per un personaggio femminile di quei tempi».
Il momento della giornata migliore per leggere?
«La notte, siccome non dormo mai (o dormo poche ore) la notte è perfetta per leggere, con il silenzio e la quiete della casa. Prima leggevo molto anche in macchina, durante i viaggi insieme ad Osvaldo. Finivo un libro in un paio di giorni. Ora mi viene il mal d’auto e non posso più farlo».
La posizione preferita per leggere?
«Seduta e comoda».
Come tiene i libri in ordine a casa sua?
«Ho una biblioteca composta da diverse librerie, ma a me piace anche tenere qualche libro sul comodino…e gli ultimi arrivati sul tavolo della sala da pranzo…quasi come un promemoria per non dimenticare di leggerli. Spesso questi ultimi sono libri scritti da autori amici e a volte anche da ammiratori che si dilettano nella scrittura, a volte con ottimi risultati».
Ha regalato un libro per sedurre?
«No mai, ho sedotto Osvaldo con un caffè al cioccolato».
Come tiene il segno della lettura?
«Con quello che mi capita sotto mano, per esempio un santino, un foglio di carta, un biglietto di auguri… pensi che come segnalibro mentre la settimana scorsa rileggevo il mio libro per la Rizzoli ritornando da Napoli in treno, ho usato la bustina contenente la salviettina umidificata che distribuiscono in treno».
Impresta i libri?
«No, a pensarci bene no…non so perché… però ad amici e conoscenti di solito preferisco "consigliare" un libro o una lettura non prestarlo».
Sulla (classica) isola deserta che libro si porterebbe dietro?
«Direi ancora Orgoglio e pregiudizio, che ho nella edizione della prima pubblicazione italiana che aveva come titolo Orgoglio e prevenzione. L’ho letto e riletto tante volte. Mi piace perché descrive con grande acume la società inglese d’inizio Ottocento, molto razzista nei confronti della gente povera. La discriminazione in base al censo e alle proprietà. Così spietata. Così intramontabile».
Nella sua autobiografia accosta le battute di nonna Roce a Oscar Wilde. Chi era il più feroce?
«La nonna aveva la forza del dialetto, che esprime immagini, sensazioni, caratteri con una concisione perfetta, lapidaria, intraducibile. Le bastava una parola per affermare una visione del mondo, la sua. Quando il mio futuro marito venne a casa nostra per la prima volta e portò un pezzo di formaggio, perché allora si usava regalare un alimentare visto che le tavole erano mezze vuote, la nonna mi chiamò in bagno e disse "Ve’, lascialo perdere, l’è miga san"? Non vedi com’è magro. Aveva un’ironia bonaria e severa per rimettere sempre le cose al loro posto. Tutta Cavriago viveva di ironia. Ogni fine anno c’era una commedia musicale, una recita, con gli studenti che prendevano in giro le persone più in vista del paese, facendo una specie di satira. D’altronde un paese che tiene ancora il busto di Lenin, non può non essere ironico».
Da Fazio in poi è diventata un personaggio noto e "chic" per le sue doti extracanore.
«Be’ la voce non l’ho mai abbandonata. Continuo allenarla ogni giorno per non perdere le note. Sono nata per cantare. E credo di saperlo fare bene. Però col tempo mi hanno stimata in televisione anche per altro. Fazio mi ha lanciata come opinionista e gaffeuse. Rivelando un altro lato della mia personalità».
La famosa ironia emiliana...
«Sì, ne ho parecchia. Bisogna sempre fare un sorriso alla vita. Per ridimensionare sia i sogni che le sgradevolezze, e riportare tutto nella giusta dimensione».
Perché ha detto di no a Playboy?
«Perché non ha mai conosciuto mia suocera e mia mamma. "Disgrasieda", mi avrebbero detto. Ho declinato l’invito, e sono contenta di averlo fatto».
Cos’è che meno le piace della musica moderna?
«Mi stancano i rapper, tutti uguali. Le voci nuove mi piacciono, anche tecnicamente. Le canzoni, invece, a volte lasciano un po’ a desiderare. Non vogliono essere "antiche", "classiche, e cercano canzoni spezzettate con testi lunghissimi, che non ti rimane niente, e non hanno vera melodia. Io invece amo ancora la bella melodia italiana, non me ne vergogno. Sono un’incrollabile fan del bel canto».
Se passa davanti alla vetrina e vede la copertina del suo libro che sentimento prova?
«E’ un insieme di tanti sentimenti ed emozioni: dalla felicità, all’orgoglio, allo stupore di vedere lì nella vetrina il racconto della mia vita… se penso a quando a 18 anni iniziai a muovere i primi passi nella musica… non mi sarei mai immaginata che un giorno la storia della mia vita sarebbe stata raccontata in un libro».