Il Messaggero, 10 ottobre 2020
Le feste infinite della Roma imperiale
Questo infelice mese di ottobre, che rischia di farci ripiombare in un’asfittica segregazione, ci rievoca lo stesso periodo di duemila anni fa, quando Roma si fermava non per una pandemia ma per una ininterrotta sequenza di feste. Ma non c’è nessuna nostalgia in questo ricordo: se la nostra economia oggi rischia di saltare per troppa cautela, allora l’Impero più grande del mondo crollò anche per la sua riprovevole incoscienza.
A quell’epoca a Roma si lavorava meno di cento giorni all’anno: il resto era dedicato a commemorazioni, anniversari, celebrazioni, ed eccentriche ritualità. In questa baldoria generale, il mese di ottobre era il più ricco delle feste più strane.
LA CELEBRAZIONE
La prima settimana iniziava con Fides et honor, e proseguiva fino al 12 con i Ludi Augustales. Poi veniva la celebrazione più seguita, e per noi più disgustosa, l’immolazione del cavallo. Aveva, come tutte le altre, un’origine religiosa, perché dopo una vittoria militare il destriero più bravo veniva sacrificato con un rito purificatore e un intento propiziatorio. Poi l’evento si era trasformato in una macabra buffonata, dove la testa dell’animale sgozzato veniva contesa tra una folla esaltata e vociferante, con una accanimento che Carcopino paragonava a quello «tra le contrade di Siena alla conquista del palio». Le feste proseguivano con i Ludi capitolini, poi con gli Juvenalia, poi con quelle dedicate a Marte e alla dea Iside. In pratica, a ottobre lavoravano solo gli schiavi.
Queste manifestazioni con l’andar del tempo diventarono sempre più complesse e dispendiose. Erano finanziate in gran parte dagli aspiranti a cariche elettive che volevano accaparrarsi la benevolenza popolare. Molti di loro ci spesero somme enormi, rifacendosi poi con la corruzione, ma spesso cadendo in rovina: Marziale racconta di una donna, Proculeia, che chiese il divorzio quando il marito, oberandosi di debiti, si candidò alla Pretura. I giochi più fastosi erano comunque organizzati dall’imperatore, consapevole, come scrisse Dione Cassio, che «se le distribuzioni di grano e di denaro soddisfano gli individui, ci vogliono gli spettacoli per l’appagamento delle masse». E in effetti gli spettacoli furono (assieme a qualche salutare esecuzione pubblica) lo strumento più efficace dell’assolutismo, occupando le passioni dei 150.000 oziosi romani che in un’inerzia accidiosa avrebbero potuto turbare l’ordine pubblico. Con la famosa espressione panem et circenses, Giovenale scolpì efficacemente questa singolare strategia. In tali occasioni di turbolenza emotiva, ognuno poteva trovar soddisfazione per le sue passioni e purtroppo anche per i suoi istinti primordiali. Per gli sportivi c’erano il lancio del disco e del giavellotto, la lotta, il pugilato, e ovviamente le corse con i cavalli. Fantini e aurighi erano ritratti ovunque, le loro vittorie erano celebrate negli acta diurnaed erano compensate con somme favolose e persino con statue commemorative: solo la nostra limitata prospettiva storica può illuderci che le retribuzioni degli odierni calciatori siano prerogativa della nostra viziata civiltà.
Per gli spettatori meno sensibili, ed erano la maggioranza, c’era solo l’imbarazzo della scelta. L’istinto ferino della nostra imperfetta natura veniva favorito – e fatto sfogare – con efferati sacrifici di uomini e animali. Claudio organizzò una battaglia navale con 19 mila uomini. Tito (l’imperatore buono) riprodusse nell’arena del Colosseo lo sterminio tra Corinzi e Corciresi, e poco ci consola il fatto che la gran parte delle vittime fossero prigionieri di guerra o criminali condannati. Gli spettacoli più comuni, e ancor più cruenti, erano quelli dei gladiatori, che la nostra cinematografia ha spesso rievocato con opportune edulcorazioni. Tra un massacro e l’altro, venivano distribuite vivande, bibite e e dolciumi. Per i senatori e i ricchi vi erano palchi separati. Qualche matrona dissoluta, eccitata dal sangue e dai muscoli dei combattenti, assecondava le sue attitudini al riparo di una tenda, a due passi dal marito indifferente o ubriaco. Sempre Giovenale, forse esagerando nella sua misoginia, ha fatto dei ritratti disgustosi delle sadiche aristocratiche annoiate. Il popolo, da parte sua, si accontentava di questi scontri, che con l’andar del tempo, e la perdita di ogni scrupolo, assunsero toni sempre ripugnanti e bizzarri. Le sane e religiose festività della Roma repubblicana erano diventate volgari esibizioni priapee, degne di esser annoverate nei moderni trattati di psicopatologia forense.
PARASSITISMO
Contemplando perplessi questa progressiva orgia di parassitismo e di depravazioni, ci domandiamo quali potessero essere le probabilità di sopravvivenza di una società così minata dal vizio e paralizzata dal divertimento. Edward Gibbon individuò nell’affermarsi del Cristianesimo il principale fattore della caduta dell’Impero Romano, e noi ci inchiniamo riverenti davanti all’autorità del massimo storico in materia. Ma ci permettiamo di aggiungere che una civiltà non collassa per l’avvento di una nuova religione, ma per la corrosione dei suoi valori fondativi. Le sontuose feste che abbiamo descritto testimoniavano la perdita di quelle virtù civili e militari senza le quali non si regge uno Stato e tantomeno un Impero. In quella Roma raffinata e amorale nessuno credeva più alla re-ligio che aveva costituito il collante dei suoi gloriosi antenati: gli stessi sacerdoti sacrificavano agli dei per mero e ossequiente formalismo imperiale. L’agiatezza del presente esentava dai progetti futuri e dalla stessa conservazione della famiglia; le pratiche anticoncezionali e abortive avevano determinato un’ irreversibile crisi demografica, con la conseguente massiccia invasione di stranieri impiegati in lavori disdegnati dai cittadini. La difesa della Patria, un tempo considerato il più sacro e nobile dei doveri, veniva ora contestata, evitata e derisa. Da Vespasiano in poi tutti gli imperatori vennero dalle provincie. Dopo il fiorente periodo degli Antonini le cose precipitarono, e dei rozzi condottieri, con qualche rara eccezione, occuparono il trono di Augusto e di Marco Aurelio. I romani aumentarono il numero delle feste e le variazioni dei divertimenti, dissolvendo le ultime energie fisiche e morali che consentirono ai barbari una facile conquista. Fu una decadenza gaudente e inevitabile, come quella di Venezia che, sfibrata dai suoi carnevali e dalle sue cortigiane aprì senza combattere le porte a Napoleone. Il cristianesimo raccolse i cocci di questa dissoluzione. Fu una fortuna che lo facesse portando in dote il nobile messaggio evangelico, fondato sulla millenaria cultura giudaica, arricchito delle innovazioni paoline e consolidato dall’idealismo di Platone. Non sappiamo se oggi, mentre nell’Occidente si manifestano gli stessi allarmanti sintomi di allora, vi sia una istituzione capace di raccogliere questa magnifica ma compromessa eredità.