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 2020  ottobre 10 Sabato calendario

1QQAN40 QQAN30 Biografia di Aldo Tassone raccontata da lui medesimo

Per larga parte della vita, ora ha 82 anni, Federico Fellini è stato il suo "Macondo", il piccolo grande universo da cui poter scrutare l’intera esistenza. Aldo Tassone si definisce un timido e, come tutti quelli che si ritengono tali, in realtà è un vero chiacchierone; ha da poco edificato con un libro di quasi 900 pagine il cinema-universo di Fellini (Fellini 23 ½, edito dalla Cineteca di Bologna). Tassone vive, insieme alla moglie Françoise Pieri, in una singolarissima casa, non distante dal Lungotevere, su una salitella che raccoglie gli ultimi scampoli di una Roma ormai smarrita. Dal prossimo anno si trasferiranno a Parigi. Una coppia ancora bella e attempata si lascia sfiorare da una leggera malinconia.

Françoise mi indica i disegni (devo dire belli) che Fellini le regalò quando lei tradusse e pubblicò in francese Il viaggio di Mastorna. E poi sui muri del salotto ci sono le foto: Fellini da solo, con Kurosawa, Fellini con la Masina, Bellocchio e Truffaut che Tassone ha frequentato nell’ultimo periodo. Per 23 anni Aldo e Françoise hanno organizzato il festival "France-Cinéma", una manifestazione tesa a valorizzare in Italia i migliori registi francesi: «Erano delle belle retrospettive.
Cominciammo nel 1986 con Robert Bresson; poi tra gli altri ci furono Julien Duvivier, Max Ophüls, Claude Sautet, Jacques Becker, Henri-Georges Clouzot, Alain Resnais, Maurice Pialat, Louis Malle, Marcel Carné, Philippe Noiret, la Nouvelle Vague; Una delle più sorprendenti fu quella che dedicammo a Jean-Pierre Melville".
Hai conosciuto Jean-Pierre Melville?
«No, quando presentammo nel 1996 la retrospettiva era già morto da tempo. Il suo cinema fu un unicum al quale si ispirarono in molti: anche Kitano e Tarantino, e prima ancora Cassavetes».
Il cinema americano lo scoprì dopo che lui aveva scoperto Hollywood.
«Che rivisitò secondo i canoni della cultura europea.
Non dimenticare che era un ebreo alsaziano che si chiamava Grumbach; prese il nome di Melville in omaggio all’autore di Moby Dick. Claude Sautet mi disse una volta che i suoi noir somigliavano alle tragedie greche e i gangster erano come eroi dell’antichità».
Lo schema era trapiantare le radici della nostra civiltà nella forma americana.
«Mi pare una buona sintesi, quasi tutti i grandi registi hanno seguito degli schemi. Sono pochi quelli che hanno fatto di testa loro».
Tra questi c’è Fellini.
«Hanno detto che tendeva a ripetersi. Non ho mai conosciuto un regista come lui, capace di rinnovarsi ogni volta che cominciava un film. Ma tu hai letto questo libro monumentale che gli ho dedicato?».
Sono circa 900 pagine, come ti è venuto in mente di scriverlo?
«È il libro della mia vita. Ognuno dovrebbe avere qualcosa che lo rappresenta. E io l’ho fatto con questo "oggetto" che si intitola Fellini 23 ½ . È il numero di film che ha girato».
Ma quando ti è nata questa ossessione?
«È cresciuta nel tempo. Pensa che quando studiavo dai gesuiti a Torino passavo interi pomeriggi nella saletta dei film. Lì ho visto I vitelloni, La strada, e poi La dolce vita.
Studiavi in seminario per farti prete?
«Ma no, anche se un pensierino l’ho fatto. Mia madre era molto religiosa, ma non mi ha mai detto: Aldo, segui la vocazione. Anche perché non c’era o non era così impellente».
Dove sei nato?
«Non distante da Cuneo. Prima della guerra mia madre visse per qualche anno in Savoia e la prima cosa che mi insegnò fu il francese. Scelse di farmi studiare in un ottimo collegio dei gesuiti e a conti fatti si rivelò provvidenziale. Ora che ci penso, mi viene in mente che anche Fellini per un certo periodo studiò in un collegio di Fano. C’è a questo riguardo un disegno che io ho e che richiamava certi suoi conturbanti pensieri da collegiale».
Cosa rappresentava?
«Era la Saraghina nuda che danza sulla spiaggia di Fano, così mi disse. E davanti a quell’esplosione di femminilità collocò un gruppo di collegiali incantati e turbati dalla visione. Era un ricordo d’infanzia che Fellini aveva evocato in 8½ . Quando per la prima volta vidi quel film fu uno shock. E fu il motivo per cui mi laureai a Genova con una tesi su di lui».
Non era più facile fare l’università a Torino?
«Negli atenei italiani il cinema non aveva ancora la piena dignità delle altre discipline. Fu l’incontro con Vito Pandolfi, che aveva la cattedra a Genova di storia del teatro e dello spettacolo, a favorirne la scelta.
Arrivai in quella città diciottenne. Pensa, fino a quel momento non avevo mai visto il mare».
Che effetto ti fece?
La prima cosa che pensai fu che il mare ligure era molto diverso da quello di Fregene, dove Fellini aveva girato I vitelloni. La spiaggia del litorale laziale, molto più simile a quella di Rimini, era come abbandonata alla sua malinconia invernale. Mentre Genova e i suoi dintorni davano l’idea di una furibonda lotta tra il mare e l’uomo per contendersi l’ultima lingua di sabbia e roccia».
Concludi il tuo percorso universitario e che succede?
«Avevo in tasca la tesi su Fellini, e l’ambizione di approfondirla. Aspiravo a un posto di assistente all’università. Cosa che riuscii a ottenere, ma senza nessun reale prospettiva. Pensai a quel punto di dedicarmi soprattutto alle cose che mi piacevano. E Fellini era in cima alla lista dei desideri».
Cosa avevi in mente?
«Beh, volevo conoscerlo, sottoporgli il mio lavoro, dirgli che non ero uno dei tanti fan, ma un ragazzo che bussava al suo mondo per capirlo. Non era facile raggiungerlo. Pensai che la cosa migliore fosse tentare di conoscere chi già lo conosceva e lo frequentava. Il nome più ovvio mi sembrò quello di Ennio Flaiano, un intellettuale, uno scrittore, che forse mi avrebbe capito».
E ti capì?
«Fu generoso, come sanno esserlo a volte quei provinciali che calano nelle grandi città, un po’ speranzosi e sprovveduti. Forse si riconobbe in me e mi prese a ben volere. Mi disse: ma perché perdi tempo con una tesi, il vero Fellini te lo racconto io. Mi aiutò in tutti i modi e gli feci un po’ da segretario. Per sdebitarsi mi regalò gli appunti di 8½ , dicendomi "A me questo materiale non serve più, tu forse ci troverai spunti per la tua ricerca". Sulla copertina era disegnato a penna il ritratto della Saraghina.
Il rapporto fecondo e straordinario tra Fellini e Flaiano a un certo punto si interruppe. Secondo te perché si arrivò alla rottura?
»Non parlerei di vera rottura. Flaiano una volta mi confessò che dopo la collaborazione a Giulietta degli spiriti non riusciva più a capire Fellini: "Ho sempre più la sensazione che Federico voglia filmare l’al di là, mentre io sono interessato alle cose di questo mondo».
Però Flaiano si sentiva anche un po’ sfruttato da Fellini e poi ci fu quella vicenda dell’aereo. Tu ne sai qualcosa?
«La storia dell’aereo per cui Flaiano fu fatto viaggiare in turistica è riferita male. Lui stesso alla fine chiarì che Fellini non aveva colpa. L’occasione di quel viaggio a Los Angeles era il ritiro dell’Oscar per 8½ . Fu il produttore Rizzoli a spedire lui e Pinelli, l’altro sceneggiatore, in seconda classe. Poi, sai, c’è una lettera che Ennio scrisse dopo Satyricon, pochi anni prima che morisse».
Cosa diceva?
«Era rimasto colpito dalla forza del film, dalle soluzioni che aveva trovato. E quella lettera si concludeva con una frase: "Per la vecchia amicizia che ci disunisce". Come sempre, affettuoso e paradossale. Oltretutto, Satyricon fu il mio battesimo».
In che senso?
«Da quel film, che è del 1969, fino a La voce della Luna, che fu l’ultimo, sono sempre stato sul set dei suoi film. E compiango quei critici che non hanno avuto questa opportunità. Fellini era la fantasia capace di imporsi con naturalezza».
Ti disse mai qualcosa su Flaiano?
«So che a volte lo considerava l’intellettuale rompicoglioni e pensava che fosse pigro e che per spingerlo a lavorare occorrevano sforzi incredibili. Ma ne ha sempre parlato con affetto e gli mancava il sodalizio. Quando Ennio morì nel 1972 io mi precipitai da Parma dove insegnavo alla clinica romana dove era stato ricoverato. Arrivai tardi e trovai Fellini, in piedi con le mani sui fianchi, che lo guardava. E io timidamente gli chiesi cosa stava pensando. Girò lo sguardo e disse: "siamo stati grandi, lui perché la vita la scriveva io perché l’ho girata"».
Chi per grandezza metteresti al fianco di Fellini?
»Tra i registi che ho conosciuto certamente Orson Welles e Akira Kurosawa. Il primo lo incrociai in un albergo di Cannes. Uscivo da un’intervista con Nagisa Oshima e a momenti sbattei contro questa figura gigantesca. Gli dissi: "Buongiorno principe, che piacere vederla qui". Sembravo il maître dell’hotel. Mi chiese se ero italiano e poi mi invitò a bere un caffè. Ne venne fuori una lunga chiacchierata e in mezzo l’ammirazione per Fellini. Adorava quel modo barocco che Federico aveva di girare».
E Kurosawa?
«Lo conobbi in Giappone. Avevo scritto una monografia che era stata tradotta anche in Francia e curato per la televisione italiana una retrospettiva sul suo cinema. Fellini mi disse che avrebbe desiderato conoscerlo. E seppi da Kurosawa che adorava Fellini, considerandolo una specie di Shakespeare contemporaneo. Poi il caso ha aiutato. Kurosawa venne a Roma per la presentazione di Kagemusha e i due si incontrarono in un ristorante di via Veneto.
Vedi quella foto che ho appesa sul muro e che li ritrae sorridenti l’uno accanto all’altro, mentre si stringono le mani? Fui io a chiamare un "paparazzo" e a dirgli di immortalarli. Ma per farti altri due nomi: Buñuel mi disse che aveva rivisto per ben tre volte Roma, era affascinato dalla struttura del film. E poi Truffaut, fino alla fine manifestò la sua devozione per Fellini».
Anche su Truffaut realizzasti per France-Cinéma una retrospettiva.
«Fu una delle ultime. Frequentai Truffaut nel periodo in cui vivevo a Parigi. Lo avevo intervistato a lungo a proposito della Nouvelle Vague. Mi incuriosiva la storia di quest’uomo che molti anni prima, da ragazzo, André Bazin aveva tolto dal riformatorio, dandogli una famiglia e insegnandogli tutto. Pensa, amava in modo incredibile la commedia italiana. Adorava Monicelli, Scola, Risi. Voleva assolutamente prendere come sceneggiatori Age e Scarpelli. Ma qualcosa o qualcuno glielo impedì».
E Fellini?
«Un tardo pomeriggio mi portò con sé alla Cinémathèque a vedere 8½ . Era entusiasta di quel film, disse che era rimasto scosso e impressionato da tutto il nuovo che il film lasciava emergere. Poi a cena mi raccontò che stava lavorando alla Nuite américaine (che da noi sarebbe uscito come Effetto notte) e che ancora sentiva l’influsso di Fellini. L’ultima volta che lo vidi era già malato. Poi seppi della sua morte da Fanny Ardant, la compagna degli ultimi anni».
Ti è mai venuta la tentazione di fare cinema?
»No, onestamente non saprei da dove cominciare. Se penso alla mia vita penso al lavoro dello scriba. Al talento che non ho mai avuto e alla forza di riconoscermi per quello che sono. I geni risplendono, certo. Ma sono pochissimi. Inutile far finta che prima o poi la grazia scenderà su di te. Non sarà mai il tuo turno e se per un momento ti viene il desiderio di pensarlo, sbatti la testa contro il muro e svegliati».