Questa storia prende il via dalla città di Alessandria, non quell’Alessandria in terra d’Egitto, cosmopolita e quasi fiabesca fino alla metà degli anni Cinquanta. No, la nostra è una ben più modesta Alessandria piemontese, chiamata anche "della Paglia" per qualcosa di legato a Federico Barbarossa.
È lì che vivevo da bambina con una sorella poco più piccola di me, un padre e una madre prossima a regalarci un fratellino.
Mamma, con certe altre signore, andava ogni pomeriggio alla Casa del Fascio per preparare insieme a loro il corredo per il bimbo ( o la bimba, a quel tempo il sesso del nascituro doveva risultare una sorpresa).
«Cosa ci vai a fare alla Casa del Fascio?» le diceva papà. «Noi non siamo fascisti» lo aggiungeva a voce più bassa.
« Ma su! » . Mia madre agitava le mani infastidita. « Il fascismo non c’entra. Il Fascio ci presta solo la sua casa».
Eravamo nel 1937. Il fascismo non aveva ancora tributato la sua particolare attenzione a noi ebrei. *** Ad Alessandria, dopo, è successo che in una gelida serata d’inverno, mentre i miei genitori si stavano rallegrando per il " bel calduccio", la nostra casa stava invece andando a fuoco (ci ha salvato la gente accorsa, gridando, dalla strada). È successo che al posto del fratellino è arrivata una sorellina, poi scelta da mia madre come preferita rispetto a noi due figlie ormai troppo abituali. È successo che, per il lavoro di papà, ci siamo dovuti trasferire in un’altra città a nome Torino. Ma per me si tratta di onde fuggevoli del ricordo. Di nitido e scolpito, come la mela che cascò in testa a Isaac Newton e gli fece scoprire la gravitazione universale, è stata quella "rivelazione".
Là, nei pressi della piazza Garibaldi alessandrina, in un giorno qualsiasi è esploso dentro di me qualcosa di basilare e indistruttibile a completo carico della mia quota emotiva.
Non si trattava di rimuginare pensieri, ma di sentirsi assaltata d’improvviso da migliaia di stelline luminescenti che ti scoppiettano dentro mentre stai già volando.
Poca sobrietà nelle parole che ho provato a intrecciare per te? Ma te le meriti! Ti ho stanato in quel giorno alessandrino, ed è stato per sempre. Eri tu: il CINEMA.
*** Sala buia, telo bianco. È da quel fondo latteo che parla, ride, canta, balla, ammicca, salta da un tavolo all’altro una meravigliosa bambina dai riccioli d’oro ( la chiamano proprio così), in una serie di fotografie in movimento che, dopo Riccioli d’oro, prendono il nome di Una povera bimba milionaria e Zoccoletti olandesi.
I miei genitori l’avevano captato. Per me l’appuntamento con i film di Shirley Temple non era un passatempo, una voglia di storie, era qualcosa che si poteva chiamare " sperdutezza". Sulla strada del ritorno da quella sala anche io cantavo, ballavo, saltavo. «Guarda come imita Shirley Temple» diceva la mia madre piemontese fingendo imbarazzo, ma nel suo fondo compiaciuta. Imitare? Io non imitavo. Io ero Shirley. In quei momenti ero assolutamente sicura di portarmi in giro la sua faccia e di muovermi con i suoi stessi vezzosi gesti.
E in tutta la mia storia d’amore con il cinema mi è capitato così. Anche da adulta. All’uscita dal film mi sembrava di " indossare" la faccia di lei, la protagonista, e provavo ritegno a farmi vedere dagli altri. E se una protagonista donna non c’era, l’identificazione si sceglieva svelta svelta strade diverse ma altrettanto coinvolgenti.
Riguardo invece al portare quell’altra faccia, ho appreso con disappunto che non si trattava di una mia sensazione unica e personale, ma di qualcosa di condiviso da un cospicuo numero di persone. Una delusione, ma che ci possiamo fare? Rientra nel quadro delle cose umane.
*** A Torino ci sono arrivata in tempo per compiere i miei sei anni, frequentare la prima elementare in una scuola pubblica ed esserne cacciata come ebrea alla fine di quell’anno scolastico.
Per la seconda, stesso fiocco blu su grembiule bianco ( l’orlo era stato allungato), mi ritrovai alla scuola ebraica circondata da una moltitudine di cugini apparsi rumorosamente e all’improvviso come dalle quinte di un teatro.
Con quei cuginetti eravamo poi diventati una vera banda, visto che le nostre madri con il cappellino amavano passare insieme i pomeriggi a consolarsi a vicenda di quell’iniquo sgarbo a nome Leggi Razziali che ci era piovuto in testa.
È toccata a queste stesse brave madri la straordinaria missione di portarci, sempre in gruppo con i cugini, a vedere quel cartone animato dal titolo Biancaneve e i sette nani che ha finito col sequestrare del tutto la mia emotività. È stata Biancaneve a farmi salire lo scalino definitivo con destinazione "paradiso". E mi pareva che l’intero mondo vi partecipasse. Fiocchetto rosso su capelli d’ebano, gonna gialla setosa e guizzante, la principessina maltrattata compariva ormai da tutte le parti, libri cartonati o album da strapazzo, giornaletti, figurine, portadolci e cavatappi. Era tutta un’orgia ( non peccaminosa) di " biancanevite" in cui tuffarsi con ebbrezza.
Incredibile che a questa fiammeggiante esperienza se ne sia aggiunta di colpo un’altra con una ben diversa valenza.
La mia famiglia, è normale, permetteva a noi figlie solo film adatti a bambini ma, non ricordo come, una domestica un po’ truffaldina mi portò a vedere un film vero, uno da grandi. Entrando nel cinema mi venne da camminare in punta di piedi. Non ero più nel padiglione riservato all’infanzia, ero nel palazzo, ci ero arrivata dalla porta principale.
E il film? Ballo al Castello si intitolava la pellicola di quella sala che io stavo frequentando da usurpatrice. Era la storia di una ballerina un po’ indisciplinata che, per questo motivo, viene cacciata dalla severa direttrice della scuola di danza. Ma in quel momento c’è un principe in visita che la incontra per caso e... finisce che lei diventa prima ballerina. Il fatto che io abbia abbracciato e condiviso con entusiasmo il concetto di protégée è l’ennesima conferma della considerazione che no, non si nasce buoni e morali e poi ci si guasta. È vero esattamente il contrario.
Amori, tradimenti, baci, coltelli, singhiozzi e risate. Ormai tu, CINEMA, avevi spalancato per me tutti i tuoi veri saloni. Ed è stato così per sempre. *** Mentre io sperdevo me stessa su dorati sentieri, mio padre trascorreva le sue ore a cercare un lavoro dopo aver perso il suo a causa delle Leggi Razziali. Impresa ardua, visto che era assolutamente proibito assumere un ebreo da qualsiasi parte. Si poteva solo sperare in una occupazione clandestina.
A Torino papà girava e girava, ma alla fine non aveva trovato niente. Un giorno ne spuntò uno a Milano. Partimmo tutti, e noi bambine trovammo anche un’altra scuola ebraica. Di Milano però non ho da raccontare. Nessun cinema nel nostro orizzonte, e poco dopo risultò che il lavoro per mio padre si era volatilizzato.
Ma la notizia era: ci spostavamo a Roma. *** Era vero! A Roma era lì, in attesa di noi, un lavoro clandestino, segreto ma reale. Mio padre aveva potuto tirar fuori di nuovo la sua cartella di cuoio marrone.
E in più, nel quartiere in cui eravamo andati ad abitare (di nome Monteverde), un po’ di sbieco ma a portata di finestra, c’era un cinema! Era una modesta, grigetta sala parrocchiale, ma a due passi, io e mia sorella potevamo andarci anche da sole. Meglio se anche con qualche amica, diceva mamma.
Ma, per i ghirigori con cui il destino ama sorprenderti, ecco, a dispetto, presentarsi un lato negativo. Noi, naturalmente, anche a Roma eravamo filate diritte alla scuola ebraica. Ed era dalla classe che erano partite le nuove amicizie, specie con bambine dello stesso quartiere. Insomma, queste nuove amiche sostituivano ormai a meraviglia la banda dei cuginetti che avevo lasciato a Torino.
Il negativo era una analoga, piccola banda formata da ragazzacci che abitavano nelle vicinanze. Ci aspettavano, ci aspettavano quei teppisti nascosti dietro qualche angolo, per assaltarci con parolacce e poi aggredirci con spintoni e anche qualche calcio. Il capo era un certo Guglielmo, dall’occhio torvo e una leggera zoppia che mimetizzava procedendo nella corsa con piccoli saltelli.
Il perché di quelle aggressioni non lo so. Certo, oggi ci viene subito da pensare a ragioni antisemite, ma allora eravamo state abituate dalle Leggi Razziali a prendere solo atto, senza ragionarci, di accadimenti incomprensibili ed esenti da qualsiasi logica.
Fra le amiche della nostra banda c’erano però due sorelle genovesi, sicuramente discendenti da qualche ruvido camallo del porto, pronte a fronteggiare i nemici con tale forza e determinazione da costringerli alla fuga. Io, modestamente, mi limitavo a nascondermi dietro le spalle di una di loro.
Il vero inconveniente era che anche i teppisti, venivano in gruppo al nostro cinema. Ma nella sala, anche al buio, passeggiava sempre il prete, e perciò non accadeva mai niente di spiacevole. Il torvo Guglielmo si limitava a non unirsi al pubblico quando, finito lo spettacolo, tutti battevano forsennatamente le mani.
Ma abbandoniamola questa nota che stride. Più di tutto, quelli sono stati gli anni del cinema all’impazzata. La corona di ferro rincorso dalla Maschera di ferro, i portatori di sogni adolescenziali come
Maddalena zero in condotta, Ore 9: lezione di chimica, Un garibaldino al convento, Le due orfanelle, gli impegnati Piccolo alpino e L’assedio dell’Alcazar. Sbadiglio del leone, zampe prese a prestito dalla realtà, parvenze e giochi del cuore, gradi di scalini musicali, frullando, frullando costruivano il nostro volo.
Che ci importava se mischiavamo pellicole di buona fattura con incongrui fumettacci? Per noi la sottile vena pacifista della Corona era uguale all’abborracciata Maschera, e il fatto che L’assedio dell’Alcazar fosse un’esaltazione del fascismo in Spagna non ci riguardava per niente. Era l’insieme di quel ronzio creativo a nutrirci e farci crescere. A quell’età si acchiappa tutto quello che trapela dalle fessure della fantasia.
*** Fuori però scorrevano e incalzavano giorni sempre più bui.
Era caduto il fascismo, ma era un’illusione. A quella breve parentesi aveva fatto seguito la brutale invasione dell’Italia da parte dei tedeschi. La loro richiesta agli ebrei di Roma della consegna immediata di cinquanta chili d’oro aveva fatto scattare nei miei genitori la decisione. Non si fidavano delle rassicurazioni dei nazisti: noi bambine dovevamo comunque essere messe in salvo. E in un giorno di piovoso settembre mia madre ci aveva accompagnato in un collegio di suore che sorgeva solitario al margine della città, in una quasi campagna. Mimetizzate in mezzo ad altre educande, avremmo dovuto fingere di essere cristiane, con un cognome cambiato (Levi era davvero troppo ebraico!), anch’esso finto cristiano.
Al momento della grande razzia del 16 ottobre noi figlie eravamo già da un bel pezzo a recitar rosari accanto alle suore. Senza il carico di bambine da trascinarsi dietro, i miei genitori, in quel tragico 16 ottobre, erano riusciti a fuggire verso la salvezza.
*** La vita del collegio, nei tanti giorni della paura, della fame ( ma era quella di tutti!), dei nomi falsi, del far finta di essere cristiane, di scuola, di noia per passeggiate sempre nello stesso giardino, di grilli e campane, ma anche di spettacoli teatrali che mettevamo su uno dopo l’altro, non è il nostro tema. Questa è una storia che ha come protagonista il cinema e, parrà incredibile, il cinema non ha rinunciato ad assumersi il suo ruolo anche in quei giorni.
Una volta, e dà sorpresa anche a ripensarci, le suore, forse per qualche premio o per svagarci, hanno deciso di portare in un cinema parrocchiale tutte le educande di età sopra ai dieci anni. Oltre a me era quindi compresa mia sorella di quinta elementare ( quella piccola no), e fra stupore e gioia non sapevamo cosa scegliere.
Se questo che racconto fosse uno sceneggiato di invenzione, ci sarebbe subito da dire « no, è una trama troppo scontata » . Non è colpa mia se invece è veramente successo che il cinema parrocchiale scelto dalle suore fosse proprio quello di fronte a casa nostra.
Quando siamo scese tutte insieme dall’autobus e abbiamo cominciato a camminare, io e mia sorella ci siamo guardate fra sgomente ed eccitate. Ma come, scappiamo sotto la pioggia, cambiamo nomi e preghiere, e poi ci ritroviamo a passeggiare davanti al portone del nostro palazzo di sempre! Il mio primo, saggio istinto è stato intanto quello di allontanarmi di colpo da mia sorella per attaccarmi al braccio di un’altra educanda. Nel quartiere ci conoscevano, e ripresentarci addirittura in accoppiata avrebbe di sicuro favorito un non gradito riconoscimento. L’altro espediente è stato quello " dello struzzo", e cioè tenere gli occhi bassi, all’insegna del " io non vi guardo e quindi non sono guardata".
Ma il mio cuore di occhi bassi non ne voleva sapere. Si era messo a battere a percussione veloce quel cuore, come succede, sotto tutti i soli dell’universo, a chi ritrova la sua tana e la sorvola.
*** Le suore, intanto, una volta raggiunto il cinema, ci avevano fatto accomodare con composto e disciplinato ordine sui sedili che ci erano stati destinati.
Guglielmo era là, dall’altra parte della sala, sempre con il suo sguardo torvo ma senza la sua squadraccia attorno. L’avevo solo intravisto, io continuavo a tenere la testa chinata, ma ne avvertivo lo stesso la presenza. Il film era Scarpe grosse, la storia di un contadino che si scopre figlio di un nobile, prima snobbato dai parenti, ma dopo rispettato perché è molto più "cervello fino" di loro. Non posso dire di non aver seguito la storia con il solito entusiasmo, no, era solo che continuavo a sentire come un fastidioso tirare dalla parte della nuca.
Quando si è riaccesa la luce non so cosa mi è preso. Con tutta la forza di mancato camallo ( le mie amiche genovesi chissà dov’erano) mi sono alzata in piedi di scatto e ho puntato su di lui, il mio nemico, uno sguardo incandescente di ferro e di fuoco.
Sulla strada del ritorno mia sorella, che da grande avrebbe scelto una carriera scientifica, mi ha chiesto con tono freddo: «Quanto ci mettono ad arrestarti se qualcuno ti denuncia?».
« Una settimana » ho risposto a casaccio.
Una settimana è passata, e poi anche due. Non è successo niente.
Ma io lo sapevo. Lo sapevo che tu, CINEMA, non avresti mai concesso qualcosa di oscuro e profanatore nel tuo regno. *** È stato ancora un film a segnare la seconda rivoluzione interiore della mia vita.
Eravamo nel 1945. La nostra città era stata liberata da un pezzo, anche se al nord la guerra non era ancora finita.
Ma per noi di Roma il futuro aveva già cominciato a fiorire e sembrava scoppiare di luce. Persino essere ormai diventatati poveri si era trasformato in una sorta di allegria vitale, perché (tranne i ricchi) poveri eravamo tutti, e questo, dopo tanti odii, ci faceva sentire più stretti l’uno all’altro. Le ombre che ci incombevano dentro non erano certo sparite, ma si erano andate a rincantucciare da qualche parte, come se preferissero essere custodite in un angolo segreto e riservato.
Un giorno i miei genitori ci portarono a vedere un film che si intitolava Roma città aperta. L’avevano cominciata a girare di nascosto quando in città c’erano ancora i tedeschi, questa pellicola.
Ma cosa mi stava succedendo? Qui non ero più invitata a trasferirmi in un altro mondo e a volar via insieme ai personaggi della storia raccontata. Non si sarebbe più verificato all’uscita quel mio immaginare di portare la faccia di una protagonista. Non ne avevo bisogno. La protagonista ero già "io" e, in questo caso, noi. Noi che vedevamo sfilare sotto ai nostri attoniti occhi tutto quello che avevamo passato, quello che era accaduto in quei terribili mesi tutto intorno a noi.
E mi veniva di alzarmi e gridare: «Sì! È così, è così! Come fate a saperlo?».
Allora, allora, rimuginavo poi fra me, sono cose che si possono tirare fuori da sé, possono tramutarsi in racconto! Ci ho poi messo quarantanove anni per elaborare dentro di me questa considerazione e renderla "operativa".
A questo film destinato all’eternità ne sono seguiti altri, stesso impianto, stessi temi, forse altri sfondi, ma sempre un "loro" che eravamo "noi". E sempre grandi. Sciuscià, Paisà, Il sole sorge ancora, Vivere in pace, Ladri di biciclette, correvamo forsennati da un cinema all’altro e sempre vivevamo la medesima emozione.
*** Ma c’era anche dell’altro, eccome se c’era! Finite le proibizioni nei confronti degli stati nemici di guerra, trasvolando il mare su un cocchio dorato, ecco che era arrivato il cinema americano. Era arrivata Hollywood!
La vita è meravigliosa, Notorious, Gilda, Sfida infernale, grandi, mitiche storie affrontate con fastosa dovizia di mezzi, il West con i cavalli, le star sinuose che diventavano simboli. C’era da sperdersi in tanto splendore.
*** La sala parrocchiale era slittata quasi nel nulla, film di questo genere non rientravano nei suoi casti programmi. Ormai noi andavamo nei cinema di seconda visione ( certe volte anche prima). Si poteva entrare in qualsiasi orario, ti sedevi al buio e vedevi il pezzo finale di un film, poi si accendeva la luce, di nuovo buio e di nuovo il film che ricominciava, e potevi guardarti la prima parte. La parola che usavamo per questa abituale manovra era " comincio". « Dobbiamo vedere il comincio! » , segnalavamo a mia madre quando era lei ad accompagnarci. Quando il " comincio" si agganciava con la scena che avevamo già assaggiato e lei iniziava a strattonarci, « ancora un po’, ancora una scena» insistevamo in coro. Si finiva spesso con un film e mezzo, ed era una gioia aggiuntiva.
Lo so, io stessa oggi resterei orripilata all’idea di entrare in sala a spettacolo già iniziato. E quindi non ho nessuna intenzione, per nostalgia di gioventù, di difendere questa usanza barbarica. Dico solo che tutta la vicenda del " comincio" era una cosa bellissima, una specie di ginnastica di menti e sentimenti intrecciati che ci galvanizzava.
*** L’ordine che regolava il campo cinema a casa nostra, anche quando ormai ci muovevamo in modo autonomo, era "assolutamente non più di un film a settimana". Ignoro se questo imperativo dipendesse da motivi economici o educativi, ma capita spesso che i due si lascino sorprendere in felice connubio.
E arrivò quel giorno fatidico.
Dopo tanto lavorio di cantieri associati, seguito da presso dalla cittadinanza, nella quasi estate del 1946, ecco, il nostro quartiere aveva finalmente il suo cinema. Aveva preso il nome di Vascello la sala pronta a prendere il via con la solenne inaugurazione nel pomeriggio di un giovedì.
A casa nostra nacque una discussione con mia madre. Sì, per quella settimana io mi ero programmata un film al cinema Colonna della Galleria Colonna. Mamma mi metteva in guardia, attenta, mi diceva, preferirai andare anche tu all’inaugurazione di questo Vascello. Non io, non io, insistevo cocciuta, io sceglievo un film, non un cinema! Andai al Colonna.
Quanto avevo sbagliato! Pareva che tutto il quartiere si fosse svegliato, pareva davvero il primo giorno del mondo. La vedevo dalla finestra quella folla che già un’ora prima stava fluendo verso il suo cinema: le suorine di Fellini che scivolavano silenziose e veloci, il fruttivendolo del mercato con, appoggiata alla spalla, la bilancia a stadera, la vecchietta stizzosa che strapazzava l’accompagnatrice, le professoresse tutte con il cappello, i ragazzi della squadra di calcio e l’intera mia classe...
Mia sorella era già pronta. Lei, " la scienziata", aveva calcolato giusto. Aveva scelto il Vascello, è logico.
Ma successe il miracolo. Mia madre piemontese mi guardò fisso e poi con gesto lento mi mise in mano i soldi per il biglietto.
Al Vascello davano Il ladro di Bagdad con l’attore indiano Sabu, una favola magica, esaltante, si sentivano come rotolare le parole delle Mille e una notte. Altrettanto magico era il tetto del cinema che, all’occorrenza, scorreva via sui suoi cardini per permetterci di vedere il cielo e i palazzi del cortile che lo circondavano.
*** Poi arrivò la tv.
La gente impazziva per quelle immagini che si introducevano direttamente nel tinello di casa tua.
Possedere un apparecchio era però una faccenda assai costosa. Tanti non se lo potevano permettere. Neanche noi. Molte sere, un golfino buttato sulle spalle, la mia famiglia al completo raggiungeva la casa di un’amica ( piemontese) di mamma. Era nel suo salotto con mobili antichi che vedevamo tutti gli spettacoli. E nella stagione di Lascia o raddoppia la frequentazione aveva raggiunto il suo culmine.
Noi, le due figlie più grandi, eravamo ormai all’università e facevamo piccoli lavori da studenti qua e là. Ma Lascia o raddoppia mica ci aveva fatto dimenticare il cinema!
Un giorno in edicola uscì un nuovo settimanale dal formato ardito a nome L’Espresso.
Per il suo lancio il settimanale ardito aveva scelto un concorso a premi. Si trattava di guardare le foto di film ormai classici e sostituire alla coppia degli attori protagonisti un’altra con interpreti italiani contemporanei. Per fare un esempio: chi ci metteranno al posto di Vivien Leigh e Clark Gable in Via col vento? Ogni settimana si proponeva un film con accanto, come in un cartellone, le foto dei possibili sostituti. Alla fine si doveva spedire il cartellone con l’intero nuovo cast. Chi andava più vicino a quello già elaborato dalla redazione vinceva.
Io, mia sorella e il nostro amore per il cinema ci siamo messi insieme per raccogliere le foto, discutere, meditare e, quasi all’ultimo giorno, spedire il nostro sofferto responso.
Un giorno mamma mi ha telefonato in un ufficio dove tentavo di apparire una segretaria. « Vieni a casa più presto che puoi!» me lo disse con voce allegra.
A casa mia sorella c’era già. Mamma ci consegnò una lettera che aveva cortesemente già aperto per noi. Mittente: settimanale L’Espresso.
Avevamo vinto!
Non eravamo arrivate prime, ma seconde sì. E perciò non avremmo ricevuto un’automobile, che neanche volevamo, ma molto di più: un apparecchio televisivo.
E così la televisione, in un enorme scatolone portato da due facchini, è entrata in casa nostra e, certo, nella mia vita.
Ma riflettiamoci: persino la TELE, persino lei, Sanremo e Superquark, me l’hai regalati tu, CINEMA!
E io non ti tradirò mai.