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 2020  ottobre 10 Sabato calendario

QQAN20 L’ultimo regalo di Harold Bloom

QQAN20

Ha un titolo bellissimo: Possessed by Memory. Posseduto dalla memoria. E un’epigrafe da Wilde che definisce la critica «testimonianza dell’anima». «L’unica forma civile di autobiografia»: anziché occuparsi degli eventi di un’esistenza umana, si occupa di ciò che accade nella mente – umori, pensieri, visioni. Così Harold Bloom, il più celebre critico letterario statunitense, scomparso un anno fa quasi novantenne, prende congedo dal mondo. E lo fa con uno slancio inatteso di sincerità: racconta di avere gettato, una sera, un’occhiata alla scrivania, carica dei libri «di molti dei miei amici perduti». Gli è sembrato di cogliere la loro presenza nella stanza, consapevole di avere, negli ultimi anni, ricondotto il proprio scrivere «incessante» a un dialogo con i grandi assenti.
La solennità del Canone occidentale, l’asperità delle idiosincrasie di lettore e stroncatore si stemperano nella «stagione dell’elegia» e danno forma a un più morbido “canone sentimentale”. Dove tre o quattro versi di Wallace Stevens, riletti centinaia di volte, danno a Bloom l’occasione per parlare della sua insonnia, o di certi risvegli faticosi; e di mostrarsi in un’alba fredda – «sono seduto sul lato del letto, sapendo che per me non è sicuro scendere da solo al piano di sotto per bere un tè» – cercando quiete nella poesia.
Posso dirlo? È commovente. Piero Boitani, che firma la prefazione, parla del Vecchio Leone «infiacchito». E tale appare quando parla delle energie perdute («in compenso, finalmente ho imparato ad ascoltare» ); quando si mostra «assalito dai ricordi» nel cuore della notte – un’immagine della madre, mentre lui, a tre anni, giocava sul pavimento della cucina. «Quando mi passava accanto, allungavo la mano e le toccavo le dita nude dei piedi». Per lampi Bloom ci lascia intuire il romanzo (non scritto) della sua lunga esistenza: e il lampo che illumina è letteratura – è la «benedizione della letteratura», come lui la chiama, realtà aumentata, vita più vita. Dall’ «aura trascendente» delle Scritture a Shakespeare, che sa rivelare gli «altri io» dei suoi personaggi (la coscienza di Amleto, «così vasta», esplorata in un capitolo intitolato” Amleto interroga Shakespeare"); dal Dio molteplice del Paradiso perduto di Milton, recitato nelle «numerose notti insonni» degli anni da studente universitario, all’incantesimo «capace di perdurare» prodotto dall’opera di Wordsworth.
Rispetto alle analisi, che lui stesso giudica verbose, fatte in passato, qui Bloom torna sui suoi autori con più abbandono, con più trasparenza; ne trascrive le pagine più amate come per un’antologia, o forse piuttosto per un breviario, un libro delle ore, perché in fondo leggere – o meglio, rileggere – somiglia molto al pregare. L’occhio si ferma per l’ennesima volta sull’esattezza di un singolo aggettivo scelto da Robert Browning, poi si alza dalla pagina e cerca la verità della mattina d’autunno nello spazio, negli arbusti avvizziti che aspettano «l’assalto gioioso della luce e dell’aria». Vita più vita, direbbe Bloom: quella che si fa verbo, e che resta; e quella che attraversiamo con il corpo, pronta a dileguare.
Le pagine più stupefacenti sono quelle in cui di un testo – L’uomo di neve di Wallace Stevens, per esempio – il critico offre una lettura stratificata nel tempo: il fossile della prima, lontana analisi, e la freschezza dell’ultima, talvolta accese entrambe da un ricordo. Wallace Stevens che, davanti a un piccolo pubblico riunito a Yale, legge una sua poesia, due terzi di secolo fa. «Ero un diciannovenne strambo e goffo, mi limitai perlopiù ad ascoltare, ma feci qualche domanda su Shelley». Bloom accosta a quel diciannovenne il novantenne ancora sconcertato dalla potenza di un verso – e al lettore sembra di vederli davvero, uno accanto all’altro; l’ora e l’allora di una stessa vita saldati dalla passione per la letteratura. Posseduto dalla memoria finisce così per essere un’autobiografia in forma di puzzle, in cui ogni tessera è un libro letto e interrogato; in cui il foglio di carta che un poeta amico ti consegna una lontana domenica mattina poco prima del Ringraziamento è un’esplosione di trascendenza che concorre alla «genesi di un critico letterario».
Dopo cinquecento pagine di poeti, arrivato alle battute finali, Bloom si sofferma su Proust: «Nemmeno settant’anni di riletture mi sono bastati per comprendere appieno questa creazione». È una sorta di “a parte”, un’appendice in cui, ripercorrendo i temi di Alla ricerca del tempo perduto, fa i conti con il proprio tempo – perduto e ancora da vivere.
Nel frattempo accarezza l’idea di poter comprendere «molte cose ancora nebulose. Tuttavia sono un lettore e un docente, non un creatore. Secondo Vico, conosciamo solo ciò che noi stessi facciamo».