Corriere della Sera, 10 ottobre 2020
Alex Infascelli racconta il suo film su Totti
È come se si sedesse accanto a noi e ci parlasse della sua vita, di uomo e di calciatore, fino al giorno dell’addio. «Un racconto intimo», dice Alex Infascelli. Mi chiamo Francesco Totti è l’evento più atteso alla Festa del Cinema, il 17 e poi il 18, nell’incontro del calciatore con Pierfrancesco Favino. «Il titolo è l’inizio di un tema e una dichiarazione. L’uomo Francesco impara dal calciatore Totti, l’uno ha bisogno dell’altro», dice il regista. Ha avuto un approccio da psicoanalista: «Una sala vuota, un divano, l’abat-jour. E abbiamo cominciato a parlare».
«Lui non aveva idea di cosa avessi in mente, mi conosceva, ama il cinema e aveva visto Almost Blue. Quando ha visto il mio accerchiamento sulle persone a lui più vicine, mi diceva: ma quanto vuoi parlare di me?». Totti commenta i filmini di famiglia che suo fratello Riccardo ha conservato, di molti ignorava l’esistenza, è stato come aprire una scatola di foto di cui non aveva memoria, e racconta «della sua infanzia di bambino timido, di quando non si capiva perché non crescesse di statura, oppure del padre che lo portava a 16 mesi a calciare la palla in vacanza, e Francesco ora si emoziona, non se lo aspettava da quell’uomo di poche parole e sentimenti centellinati, «è come faccio io con mio figlio Cristian». E poi parla di fede e spiritualità.
L’altra metà del campo. Ecco l’atleta, immagini inedite dell’esordio col Brescia, la corsa a guarire dall’infortunio per i Mondiali del 2006 e il rigore contro l’Australia, dietro a cui c’era il peso affettivo di Ilary, sua moglie; la visione di gioco a 360 gradi fin da adolescente; lo psicodramma con l’allenatore Spalletti: «All’inizio si capirono, poi fu messo da parte e lo visse come un tradimento, diventò un film dell’orrore, si palesò un’altra persona, l’avversario era lui. Ma che metti anche Spalletti? Mi ha chiesto. Voleva parlare della Nazionale, ritrovava accanto in una fratellanza gli avversari, Buffon, Del Piero e si è reso conto che sono cresciuti insieme». La Lazio? «Dice che a Roma ci sono tre squadre: la Roma, la Lazio e la giovanile della Lodigiani. La Lazio è la terza squadra. Il vero romano è romanista, lui è nato così, è una religione e non ti puoi convertire alla Lazio».
Lo sputo al danese Poulsen, l’errore di cui si pente: «Quando perdo la testa, faccio cose di cui mi vergogno. Ma dietro c’era una regia e non era più calcio». Niente barzellette e congiuntivi, è un viaggio introspettivo, non c’è la dimensione mediatica «che gli pesa e interferisce con la sua libertà, già da ragazzino aveva la gente sotto casa ed era sconvolto, non poteva andare a giocare a flipper. Il suo sogno? Essere invisibile per un giorno».
C’è malinconia? «C’è quella di Clark Kent, ha appeso il costume di Supereroe per diventare uno di noi. Può ancora dare tanto. Il tono è quello del rewind: Rivai indietro che voglio vedere meglio…». Il rischio di un santino? «Totti è solo se stesso, e poi è un dissacratore…Io non sono tifoso, sono rimasto colpito dalla persona, dal volto, mi sembrava uno di famiglia». Quando era dubbioso, il regista gli ha detto: «Questo film ti sopravviverà, è l’occasione di dire cose che non hai detto. Ha preso a parlare di Ilary, di come l’ha fatto crescere come persona e atleta».
C’è qualcosa in lui che va al di là del calciatore...«Mi hanno colpito la semplicità, la generosità, un modo alla Forrest Gump di cui sono dotate alcune persone speciali, quasi opposto alla dannazione di un Kurt Cobain. C’è nel suo sguardo gentile, pacato una qualità empatica, una classicità, qualcosa di sovrumano e di molto terreno. Ci somiglia. Hai la sensazione di averlo incontrato, anche se non sei tifoso della Roma ha un peso umano che non ti lascia indifferente».