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 2020  ottobre 10 Sabato calendario

Maccalli e Chiacchio raccontano il rapimento in Mali

Il momento più difficile per Pier Luigi Maccalli e Nicola Chiacchio è stato nel marzo 2020, quando ai rapitori jihadisti è arrivata la notizia che un altro italiano era riuscito a fuggire. «Ci hanno tolto le scarpe, incatenati per i piedi ad un albero. Abbiamo temuto che ci volessero uccidere dalla rabbia», hanno dichiarato ieri alla procura di Roma. Il riferimento è all’architetto Luca Tacchetto, rapito nel Burkina Faso 15 mesi prima e quindi riuscito ad evadere con la giovane fidanzata canadese. Ma oltre due anni di prigionia hanno avuto continui alti e bassi. Ascoltare il loro racconto aiuta a capire l’evoluzione dell’estremismo islamico nell’Africa sub-sahariana. «Siamo prima stati presi da una piccola tribù locale. Non ci trattavano troppo male. Hanno persino rispettato la mia richiesta di poter avere una dieta vegetariana. Allora mi trovai a pensare che se facevano queste attenzioni allora magari non ci avrebbero assassinati», ricorda Chiacchio.
Dei due è il più pronto a parlare con i rapitori. Quanto il missionario cerca la solitudine, la preghiera, cerca di isolarsi, tanto lui vorrebbe il dialogo. Ad un certo punto considera persino la conversione. «Speravo che mi avrebbero trattato meglio», confidano al pubblico ministero del tribunale romano Sergio Colaiocco e al procuratore capo Michele Prestipino. Don Maccalli prega in disparte, ogni giorno. Alcuni mesi dopo vengono presi in consegna da un «gruppo di arabi». Segno del carattere sempre più pan-islamico del jihadismo africano. Qui sono convogliati i resti di Al Qaeda dopo la morte di Osama Ben Laden e soprattutto di Isis in seguito delle sue gravi sconfitte tra Siria e Iraq. I combattenti di Boko Haram avevano giurato fedeltà allo stesso Abu Bakr al Baghdadi e adesso stanno mettendo radici tra il Mali, il Niger e il Burkina Faso.
Alla fine arriva un gruppo di Tuareg. Sono i popoli del deserto che si muovono veloci per piste conosciute solo a loro, spaziano sino alla Libia meridionale. «Con loro abbiamo viaggiato molto, siamo anche usciti dal deserto e abbiamo soggiornato a lungo in alcune regioni montagnose. Di notte faceva freddo», raccontano.
Pare non siano stati pagati riscatti cospicui. È stato un puro scambio di prigionieri. Assieme ai due italiani, i jihadisti hanno anche liberato la cooperante francese Sophie Petronin e il leader dei partiti di opposizione del Mali, Soumaila Cisse. In cambio il governo di Bamako ha dovuto rilasciare quasi 200 militanti jihadisti che aveva catturato negli ultimi tempi. Da Parigi gli stati maggiori dell’esercito non lesinano le critiche. La Francia dal 2014 dispiega un contingente forte oltre 5.100 soldati nel Sahel, da allora ne ha persi almeno 43 in azioni di guerra. Il timore cresce per l’eventualità della ripresa degli attacchi jihadisti. Anche l’Italia ha una missione di circa 200 soldati in Niger. E presto altrettanti dovrebbero arrivare nel Mali per affiancare i francesi.

Sono stati i servizi segreti italiani e in particolare l’Aise (l’Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna) guidata da Gianni Caravelli a giocare un ruolo fondamentale per la liberazione dei quattro ostaggi. Da Bamako la stampa locale osserva quanto la situazione sia mutata dopo il golpe che il 18 agosto ha rovesciato il governo dell’ex premier Boubacar Keita. Il nuovo premier di transizione, Ban Ndaw, non nasconde di essere pronto al dialogo e persino alla trattativa con gli estremisti. E proprio su questi rapidi mutamenti del panorama politico hanno lavorato gli italiani.
Ma secondo i due italiani i rapporti con i rapitori parevano migliorati anche prima. «Il 20 maggio cadeva il compleanno di Maccalli. Per regalo avevamo chiesto una radio, che ci è stata accordata. È stato allora che abbiamo appreso del Coronavirus. Ma i rapitori non ci credevano. Sostenevano che era una punizione di Allah contro gli infedeli», ricordano. La situazione cambia quando anche i jihadisti ascoltano i notiziari e scoprono che la pandemia sta mietendo vittime anche nei Paesi musulmani del Medio Oriente. «Sono rimasti in silenzio, cosa potevano dire?».