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 2020  settembre 19 Sabato calendario

Da "Casa Lampedusa" di Steven Price (Bompiani)

Capitolo primo:
VICINO AL MOSTRO
Gennaio 1955
 
 
(...)
Una mattina di fine gennaio lo richiamarono dal gabinetto
medico, per i risultati di una spirometria. S’era svegliato in
preda al dolore e, attorcigliate le lenzuola in un nodo, aveva
posato i morbidi piedi bianchi sul pavimento, allarmato da un
capogiro nuovo, una fame d’aria, come se il suo corpo si fosse
infine risolto a tradirlo.
Quella sensazione era passata; ma poi, quand’era pronto a
uscire per colazione, in cima alla lunga scalinata di marmo, sotto
i ritratti dei suoi antenati avvolti nella penombra, il dolore
l’aveva trafitto ancora, sicché si era aggrappato al corrimano e,
sentendosi mancare il fiato, aveva lottato col nodo della cravatta.
Se erano solo fantasie non lo sapeva. S’era premuto due dita sul
cuore e aveva preso un respiro. L’ansia nuova che sentiva per.
era vera, e non la riconosceva. La sera prima, a cena, non aveva
parlato con la moglie dell’appuntamento col medico: le aveva
solo rivolto un sorriso pacato, chiedendole quando era diventato
così vecchio.
Gli alberi sono vecchi, aveva risposto lei, impassibile. I principi
sono antichi.
Nel vestibolo, davanti alla consolle, si sistemò il cappello
scrutandosi allo specchio, confuso. Un dolore gli montò nel
petto, si affievolì.
Ah, pensò.
E si passò un dito mesto sopra le rughe che gli incorniciavano
gli occhi.
Era un uomo che si era lasciato alle spalle la mezza età come
altri lasciano una stanza, senza pensarci, come se potesse tornare
indietro in qualsiasi momento. Aveva cinquantotto anni.
Era dall’armistizio della prima guerra che non passava un’ora
sveglio senza fumare. Una tristezza gli increspava gli occhi, una
timidezza, si notava perfino nelle fotografie di quand’era ragazzo.
Si sentiva sciocco in compagnia degli adulti, lo ricordava
bene, e quella sensazione non l’aveva abbandonato. Pacato,
ironico, da sempre lo scambiavano per un buon ascoltatore,
benché più di qualsiasi vergognosa confidenza gli fosse sempre
interessata la qualità della luce. Era un uomo incline alla solitudine
e agli appetiti, e si era imbolsito di ritorno dall’Inghilterra,
negli anni trenta, e poi ancora di più a Palermo, a furia di mangiare
pasticcini. Le automobili non gli piacevano; camminava
per il suo quartiere con un bastone, goffo, curvo, nel corpo
sofferente di un uomo più vecchio di vent’anni, sempre con un
libro o due sotto il braccio. Portava i baffetti ben curati, come
quand’era giovane, i capelli grigi impomatati all’indietro, e indossava
ogni mattina un bell’abito blu da tempo fuori moda.
Leggeva avidamente, in italiano, francese, inglese, e da oltre
cinquant’anni. Il Mostro, così lo chiamavano i cugini per la sua
capacità di divorare i libri.
Arrivò all’appuntamento alle dieci in punto e il dottor Coniglio
lo fece entrare subito. Notò nei modi del medico una
stranezza, una rigidità che lo preoccuparono e gli fecero presagire
la gravità delle notizie. Conosceva Coniglio da anni. Erano
coetanei. Un uomo elegante, dalle spalle robuste; colletto lindo
e inamidato, maniche invariabilmente rimboccate. Lo apprezzava,
apprezzava il suo parlare cordiale, l’espressione schietta
come la luce del sole su un lastricato. Quando sua madre stava
morendo tra le macerie di casa Lampedusa, Coniglio l’aveva
curata, ogni settimana aveva affrontato il lungo viaggio in auto
da Capo d’Orlando a Palermo. Prima della guerra era stato
il medico di fiducia dei cugini Piccolo, che andava a visitare
a Vina, nella loro villa, e solo da cinque anni a quella parte
riceveva a Palermo. Ora, trovandosi nel suo nuovo gabinetto
medico, gli tornò in mente lo sguardo che la madre era solita
rivolgere a Coniglio, il giudizio rigido, freddo che le si leggeva
negli occhi. Anche lei lo reputava un brav’uomo. E non le piaceva
vederlo accanto al figlio.
Non si riteneva timido ma una certa timidezza lo prendeva
quand’era in compagnia di uomini come il dottore: uomini
che gli portavano rispetto per il suo rango, uomini che s’erano
prefissi uno scopo e l’avevano realizzato, uomini tenaci,
uomini di mondo. Avevano modi disinvolti che lo mettevano
a disagio, una sicurezza che lo faceva vacillare. Cominciava a
sentirsi annebbiato, diventava guardingo, esitante, e gli sfuggiva
il momento per la risposta a tono o la battuta caustica
che sempre aveva pronte. Allora batteva le palpebre pesanti,
abbozzava un sorriso e incrociava inerme lo sguardo dell’altro.
Aspett. un cenno del dottore prima di sbottonarsi il cappotto
e accomodarsi. Si tolse il cappello, all’interno del quale
ripiegò i guanti, e appoggiò il bastone sulle ginocchia. Posò
con cura al proprio fianco la borsa di pelle mezza aperta; si
intravedevano nel loro involto di carta i biscotti glassati della
colazione al Massimo e il lucido dorso del libro che s’era portato
per dopo, Il Circolo Pickwick. Subito allungò una mano
alle sigarette che teneva in tasca, ma incrociò lo sguardo del
dottore.
No?
Ah, Don Giuseppe, sorrise Coniglio con aria di disapprovazione,
non tutti i piaceri della vita sono vietati. Ma alcuni lo
sono o dovrebbero esserlo. Sembra stanco, amico mio.
Giuseppe ritirò la mano e accavallò le gambe, facendo gemere
la fodera porpora. Il dottore si era seduto sul bordo della
scrivania, con una gamba sollevata, le mani intrecciate sulla coscia,
quelle mani che rivoltavano, esaminavano, incidevano la
pelle di altri uomini, in cerca dei segreti della loro carne. Lui ne
incrociò lo sguardo senza scomporsi.
Ebbene?
E’ come temevo. Ora il dottore scandiva le parole. Enfisema.
Forse si può tenere sotto controllo, ma il decorso non si può
arrestare. Mi spiace.
Giuseppe sorrise appena. Non sapeva cosa dire.
Naturalmente non sempre l’esame spirometrico è decisivo.
Possiamo farne altri.
Lo ritiene necessario?
Coniglio lo guardò negli occhi. Direi di no, disse infine con
dolcezza. E’ venuto solo? Speravo che la principessa l’accompagnasse.
Giuseppe scosse il capo, calmo.
Doveva farsi accompagnare. Il dottore andò a sedersi alla
scrivania, aprì un cassetto e tolse il cappuccio a una stilografica.
Le prescrivo un farmaco per alleviare un po’ il dolore. Ma,
intendiamoci, l’unica vera cura è eliminare il fumo.
Dalle tende filtrava la luce grigia del mattino invernale. Giuseppe
chiuse gli occhi, incassò il colpo.
Serve a far regredire gli effetti?
E’ una malattia cronica, Don Giuseppe. Far regredire gli effetti
è impossibile, non può che avanzare. Ma si può tenere
sotto controllo. Deve cambiare stile di vita: deve fare moto regolarmente,
camminare, mettersi a dieta, evitare il più possibile
stress e preoccupazioni.
Non c’è altra cura?
Be’, cominciamo con questa.
Mi ucciderà? insisté Giuseppe.
Coniglio lo guardò placido. Una miriade di cose potrebbe
ucciderla prima.
Giuseppe sorrise a malincuore.
Le do un farmaco che allevierà il dolore e l’aiuterà a dormire.
Il dottore impiegò qualche minuto a scrivere la ricetta. Dopodiché
da una cartellina rossa estrasse due fogli dattiloscritti e
li scorse prima di rimetterli a posto. Stiamo invecchiando, Don
Giuseppe, disse. E’ questo il punto. Forse non ce ne rendiamo
conto, ma è così.
Già.
E il nostro corpo farà in modo che non ce lo dimentichiamo.
Si capisce.
Coniglio congiunse le dita, pensoso. Era chiaro che non sapeva
bene come proseguire. Un istante dopo, però, con stupore
di Giuseppe, cominciò come se nulla fosse a parlare della moglie.
Aveva una moglie francese che lo trattava in malo modo,
era risaputo. Disse: Jeanette è a Marsiglia. Ora che la sorella è
malata vuole stare con i suoi. Vorrebbe che la raggiungessi, mi
ha scritto. In pianta stabile.
Ah.
Lei e la principessa siete stati a lungo lontani, vero?
Sì, negli anni trenta.
Ricordo che sua madre me ne parlava. La principessa Alessandra
era in Lettonia?
Giuseppe annuì. Preferì non pensare a ciò che aveva potuto
dirne la madre.
Coniglio picchiettava la stilografica sulla fede, clic, clic. Ma
aveva un’espressione calma, i capelli ordinati, la camicia rosso
corallo impeccabile, immacolata. Sì, riprese, andò tutto per
il meglio nel vostro caso. E’ il mondo moderno, Coniglio, mi
dico. Animo! Abbiamo telefoni, aerei...
Giuseppe non aggiunse altro. Licy era sempre andata dove
voleva, quando le pareva. Era tornata in tutta fretta in Sicilia
solo quando l’Armata Rossa, che avanzando aveva messo
a ferro e fuoco le case dei signori, si avvicinava ormai al suo
castello. Lui non s’era illuso che la moglie avesse ceduto ai
suoi desideri.
Secondo Jeanette, un medico trova da lavorare ovunque, aggiunse
Coniglio. Persino un medico siciliano. Suppongo che ci
sia del vero in quello che dice.
Che cosa intende fare?
Coniglio guardò fuori dalla finestra, un vago sorriso sulle
labbra. Mi preparo al peggio e m’accontenterò del meno peggio,
rispose. Ma è per i miei pazienti che mi preoccupo, Don
Giuseppe. E’ chiaro che a molti dovrò dire addio.
Sempre meglio partire che essere abbandonati.
Già. E certi viaggi non si possono rimandare.
Giuseppe chinò il capo.
Coniglio si pizzicò l’attaccatura del naso, e in quel gesto
c’erano angoscia e smarrimento improvvisi. Si sfilò gli occhiali,
batté le palpebre, gli occhi azzurri inumiditi. Quella commozione
spiazzò Giuseppe, lo mise a disagio. Sa, disse il dottore,
da anni quando mi trovo di fronte a una decisione difficile mi
torna in mente una cosa che mi diceva sua madre. Scelga sempre
la strada più facile, dottor Coniglio, così mi diceva. Eppure
non l’ho mai fatto. Chissà che cos’ho nella testa.
Fu come se una moneta sfolgorasse nella luce fredda.
Aveva una forte personalità, sua madre, continuò Coniglio.
Era ferma nelle proprie opinioni. Ricordo come parlava di
Mussolini.
Alla fine era piuttosto confusa.
Disapprovava le ghette. Si ostina a mettere le ghette, diceva.
Coniglio sorrise, scosse la testa. Ricordo che una mattina mi afferrò
la mano e disse che Mussolini non aveva cambiato nulla,
eppure per causa sua era cambiato tutto.
Pensava alla sua casa, disse piano Giuseppe.
Un palazzo bellissimo, convenne il dottore. Non c’era alcun
bisogno che gli americani ci scaricassero addosso tutte quelle
bombe.
Non credevo che conoscesse il palazzo, dottore.
Coniglio si mostrò perplesso. Ci sono andato diverse volte a
visitare sua madre.
Era tutt’altro che bello a quei tempi.
Be’.
Una volta era una bella casa, prima che cadesse in rovina.
Ma lo era anche dopo, Don Giuseppe. Da bambino passavo
di lì ogni domenica mattina. Mio padre aveva un banco del
pesce alla Vucciria. Prendevo la strada più lunga. Non avevo
fretta di arrivare.
In quelle parole non c’erano né vergogna né imbarazzo per
le sue umili origini e Giuseppe non poté che annuire vagamente.
D’un tratto ogni cosa gli parve priva di senso. La madre, gli
veniva in mente adesso, verso la fine non si fidava più di Coniglio:
tossiva e torceva la bocca, dicendo che il suo buon dottore
era un mafioso. Giuseppe stava per dire qualcosa, ma tacque.
Non boccheggiare come un pesce, gli diceva sempre la madre.
Si alzò di scatto.
Voglia scusarmi.
Coniglio fece per alzarsi a sua volta. Prego.
Ho perso la cognizione del tempo.
Ci mancherebbe. Ci risentiremo presto, ne sono sicuro, Don
Giuseppe. Mi ricordi a Don Casimiro e a Don Lucio, la prego.
E naturalmente alla principessa.
In quell’espressione antiquata Giuseppe sentì echeggiare lo
stile di un romanzo inglese, come fosse una traduzione all’impronta
di Meredith o di George Eliot, e fissò il dottore da dietro
le palpebre pesanti. Quell’uomo era stato il testimone più intimo
dell’agonia di sua madre: le tensioni, l’amore aspro che esprimeva
al figlio, il rancore, le imprecazioni a mezza voce, gli insulti
velati. Lui ne era uscito, lo sentì con pungente chiarezza, vulnerabile
e sciocco. Ma poi la sensazione sfumò e rimase la voglia
di allontanarsi da quello studiolo che sapeva di limone, vernice e
canfora, odori che avrebbe sempre associato alla propria morte.
E così Giuseppe Tomasi, ultimo principe di Lampedusa, indossò
con cura il cappello, infilò le dita nei guanti di capretto
del defunto padre, prese il bastone e la vecchia borsa di pelle.
Sulla porta si fermò.
Quanto tempo mi resta, dottore?
Coniglio teneva le mani intrecciate sulla scrivania e inclinò
leggermente il capo, al che la luce si riflesse sulle lenti degli
occhiali, nascondendogli lo sguardo. Dipende da lei, rispose.
Preghiamo che siano ancora molti anni.
In tal caso non dipende affatto da me.
Il dottore sorrise, ma con mestizia, allora Giuseppe uscì, lasciandosi
alle spalle il debole tintinnio del portone a vetri smerigliati.
Si avviò lentamente nell’aria fredda e tersa, curvo sul
bastone, come fosse lo stesso mattino di prima, lui lo stesso
uomo