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 2020  ottobre 09 Venerdì calendario

Biografia di Louise Glück

Forse quest’anno il Premio Nobel per la letteratura non farà troppo discutere. Non così tanto, almeno, come in anni recenti è accaduto con l’incoronazione di Bob Dylan o di Peter Handke. La poetessa americana Louise Glück è infatti per molte ragioni una scelta sicura, di qualità, e in quanto tale difficilmente contestabile. Certo non era nella prima fila dei cosiddetti favoriti ma nemmeno nelle retrovie. E non è stata neppure una specie di scoperta, come accadde invece nel 1996, caso fortunatissimo, con Wisława Szymborska. Del resto l’Accademia di Svezia conferma una volta di più la sua regola, che è quella di smentire infallibilmente i pronostici, mostrandosi più imprevedibile di qualsiasi cimento sportivo.
In ogni caso, quest’assegnazione cade sulle spalle di un’autrice strutturata e forte, da tempo molto apprezzata in patria e all’estero, e non a caso in possesso di un cursus honorum praticamente perfetto, dal Premio Pulitzer per la poesia (1993), al National Book Award (2014), alla nomina a poeta laureato degli Stati Uniti nel 2003. Da questo punto di vista il Premio Nobel arriva come un autentico coronamento e insieme come un ultimo atto, perché dopo questa consacrazione non resterà che tornare, o magari avvicinarsi per la prima volta, alla sua poesia per verificarne la qualità, la presa, l’efficacia reali.
Del resto, la domanda di circostanza è sempre la stessa: l’opera della scrittrice o dello scrittore designato giustifica davvero le luci di una tale ribalta planetaria? Così ogni anno ci si ritrova davanti a questa strana situazione, che sostanzialmente ha in sé qualcosa d’innaturale. La letteratura, e tanto più la letteratura di valore, nasce infatti all’oscuro, in solitudine, nel fango; costa fatica, ansia, tormento interiore. E il fatto stesso di trovarsi all’improvviso sotto i riflettori la fa sempre un po’ apparire come fosse in una casa non sua.
E proprio la solitudine, l’isolamento, che è quello del singolo individuo disperso nella storia e nella società, ma con risvolti cosmici o metafisici, per un lettore italiano in qualche misura leopardiani (la Natura matrigna), costituisce il motivo centrale della poesia di Louise Glück. Se pensiamo proprio a Wisława Szymborska e a quella vocazione alla gioia, a quella leggerezza e lietezza malgrado e contro tutto, di cui la poetessa polacca aveva fatto un’autentica bandiera, non c’è dubbio che ci troviamo adesso su un versante praticamente opposto. C’è ad esempio una poesia indirizzata dalla scrittrice al proprio innamorato, ma dal capolinea di una relazione finita male, in cui ammette che l’amore per la terra, l’energia, la vitalità, non fanno comunque parte della sua (di lei) natura. Ed è a partire da questa situazione fondamentale che va compresa la sua poesia: i suoi sforzi di comprensione e d’intesa, le sue analisi, i suoi giudizi, il tentativo sempre rinnovato di farsi sorprendere dalla realtà e di trovare il proprio posto, e senso, nella vita. È dunque una poetessa dura, tenace e poco conciliante Louise Glück. E non perché non possieda una benevolenza e un sentimento di partecipazione per il comune destino degli esseri umani.
Piuttosto, a fronte dell’ostilità delle cose e di un’esistenza che, comunque vada, resta di per sé difficile, con le sue poesie non intende mai cucinare ricette scontate o offrire soluzioni prevedibili. Meglio ancora: non intende proporre facili scorciatoie o vie di fuga. Del resto, non è semplice nemmeno la sua poesia. E non per qualche forma d’oscurità espressiva o di densità metaforica. Al contrario, proprio l’immediatezza, la qualità quasi confidenziale del discorso poetico (è uno di quei poeti nei quali si sente la voce che parla) costituisce il punto di forza della sua poesia. Dunque si tratta di una difficoltà diversa, di natura concettuale, conoscitiva. Questi versi pretendono un lettore paziente e intelligente, vale a dire capace di comprendere come la messa in forma di parole della vita – i rapporti umani, la famiglia, le relazioni di coppia, le percezioni e la sensibilità, il corpo, l’osservazione della natura, il dialogo con il creato – comportino sempre una conoscenza profonda, una meditazione, e una risposta.
Massimo Bacigalupo, che è il suo più importante interprete e traduttore italiano (dopo un numero della rivista «Poesia» dedicato principalmente alla scrittrice americana nel marzo del 2003, ha curato e tradotto integralmente le due raccolte L’iris selvatico e Averno, rispettivamente nel 2003 per Giano e 2019 per Dante & Descartes), ha riconosciuto come proprio l’«infallibile tono colloquiale» costituisce il marchio di fabbrica della sua poesia. Ma proprio questo tono, poi, la ricollega a un tratto distintivo della tradizione poetica statunitense in cui Glück mostra di avere il proprio retaggio, da Emily Dickinson a Wallace Stevens, fino a Sylvia Plath e Robert Lowell.
Per avvicinarsi a questa poesia, si potrebbe cominciare proprio da L’iris selvatico, che uscita negli Stati Uniti nel 1992 costituisce la sua raccolta forse più apprezzata. Si tratta di una sorta di sinfonia poetica che racconta di un periodo trascorso dalla scrittrice col figlio in una casa del Vermont, corredata da un giardino (non a caso le sue prime parole, ricevuta la notizia del premio, sono state: «Bello, potrò comprarmi una casa in Vermont»). Il periodo è tra la fine della primavera e la fine dell’estate: quello dunque del rigoglio della natura, degli alberi, delle erbe e dei fiori. E in molte di queste poesie sono proprio i giorni, alla lettera, a parlare di sé, a raccontare alla scrittrice e a noi le loro pene e le loro gioie, i loro sogni. Altre volte parla invece la poetessa, altre ancora perfino Dio. Ma è sempre e comunque il giardino, è il mondo creato il protagonista delle poesie. E questo mondo, che non è facile, va non solo amato ma curato, proprio come fa qui il poeta giardiniere della vita e delle parole, con la sua passione, la sua giustizia e appunto la sua cura. Come accade nei versi che seguono (la traduzione è di Bacigalupo): «Nel giardino, nella pioviggine/ la giovane coppia che pianta/ un solco di piselli, come se/ nessuno l’avesse mai fatto prima,/ le grandi difficoltà non fossero mai state/ affrontate e risolte».
Roberto Galaverni, Cds

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La poetessa americana, 77 anni, vince a sorpresa contro ogni pronostico Super premiata nel suo Paese, è meno conosciuta in Europa Ma l ’Accademia l’ha preferita a McCarthy, DeLillo e Marilynne Robinson
La scelta di conferire a Louise Glück il premio Nobel per la letteratura appare per molti versi una sorpresa, ma è fuori discussione l’indubbia qualità della poetessa americana, nota prevalentemente per L’iris selvatico , una magnifica raccolta di poesie (pubblicata in Italia da Giano nel 2003) contraddistinte da un anelito spirituale nei confronti di un Dio definito unreachable father , padre irraggiungibile. L’essenza più intima del percorso creativo di questa poetessa nata settantasette anni fa a New York è una ricerca austera e sofferta della grazia: un viaggio segnato dal dolore e dal desiderio, dalla solitudine e la tristezza. Elementi meritoriamente apprezzati dall’Accademia svedese, sulla quale tuttavia è necessaria una riflessione. Con l’eccezione di Bob Dylan, premiato nel 2016, sono passati ben 27 anni prima che il riconoscimento andasse ad un autore americano: personalmente sono tra coloro che ritiene che il premio Dylan non sia affatto usurpato, tuttavia penso che sia sconcertante che dal 1993, anno in cui vinse Toni Morrison, l’Accademia abbia ritenuto che ci siano stati 26 autori meritevoli del premio più di Don DeLillo, Cormac McCarthy, Marilynne Robinson e Thomas Pynchon. Per non parlare di Philip Roth, al quale venne negato a causa di assurdi pregiudizi nei confronti di una sua presunta misoginia e di un ancora più ridicolo antisemitismo. Non che siano mancati premiati di prima grandezza, a cominciare da V.S. Naipaul, Kazuo Ishiguro e Alice Munro, ma è evidente che l’Accademia del Nobel soffra della grave e diffusa patologia dell’anti-americanismo, come ha testimoniato la dichiarazione del segretario Horace Engdahl, che parlò, citando proprio Roth, di «letteratura insulare, provinciale e ignorante», prima di essere costretto a dimettersi. Le scelte sono segnate perennemente da due caratteristiche: una costante predilezione per autori provenienti da un mondo politico progressista, con l’eccezione, in media ogni dieci anni, di scrittori di idee opposte, in modo da sparigliare e riequilibrare. Rientrano in quest’ultima categoria autori quali Saul Bellow, Mario Vargas Llosa, e, molti anni prima T.S. Eliot, all’interno di una lista dove compaiono certamente eccellenze, ma nella quale l’effettiva qualità degli scrittori non sembra essere sempre l’elemento determinante: come giudicare altrimenti le incredibili assenze di Vladimir Nabokov, Jorge Luis Borges e Graham Greene?
Andando indietro nel tempo, si potrebbero aggiungere Lev Tolstoj, Marcel Proust e James Joyce. La seconda caratteristica ha trovato ulteriore conferma nella scelta odierna: la volontà da parte dell’Accademia svedese di spiegare ad ogni Paese – in particolare agli Stati Uniti – quali siano in realtà i rispettivi grandi da celebrare. Louise Glück è una poetessa notevole e sempre interessante, ma appare difficile considerarla superiore a Robinson, a Roth e gli altri autori citati. Chi la conosce racconta che è stata la prima a stupirsi del premio, eppure non le sono mancati i riconoscimenti, a cominciare dal Pulitzer sino al National Book Award. Ha scritto e studiato per tutta la vita, questa donna schiva e autorevole, ma specie ora che insegna Yale, vive il rammarico di non essersi mai laureata per motivi di salute. Proviene da una famiglia di ebrei ungheresi e ha assorbito la passione per la scrittura dal padre Daniel, un droghiere che per tutta la vita ha sognato di diventare un romanziere. È stato lui a infonderle la passione per la cultura, in particolare per la poesia e la mitologia, e per apprezzarne in pieno i versi che cercano la luce in un mondo pieno di dolore, è necessario ricordare l’infanzia contrassegnata da una gravissima forma di anoressia.
«Fu quello il momento in cui mi resi conto della assoluta fragilità del mio corpo, ma nello stesso momento sentiti quanto fosse viscerale il mio desiderio di non morire ». In questa dichiarazione, rilasciata dopo anni di psicoanalisi, ci sono altri elementi guida della sua poetica, e nei suoi mentori Stanley Kunitz e Leonie Adams, sono da individuare i due poli ispiratori di una creatività che nasce dagli spasmi dell’urgenza. La sua vita è stata perennemente costellata dalla volontà di rinascere di fronte al dolore: è stato così dopo il divorzio dal primo marito Charles Hertz, a cui ha fatto seguito il matrimonio con lo scrittore John Dranow da cui ha avuto un figlio, ed è stato così dopo il terribile incendio che distrusse la sua casa in Vermont, dal quale si salvò per miracolo. I riferimenti ai testi sacri sono costanti, come attesta la sua raccolta Ararat, che precede di tre anni L’iris selvatico, per il quale le venne assegnato il Pulitzer. Il libro contiene dei veri e propri passaggi liturgici con tanto di Lodi e Vespri. La preghiera che eleva al Padreterno è tuttavia segnata da momenti di disperazione: «Ora dappertutto, mi parla il silenzio / così è chiaro che non ho accesso a te; non esisto per te, hai tirato / una riga sul mio nome ».
Le parole di Dio sono ancora più tragiche: «Quando vi ho fatti vi amavo / ora vi compatisco» tuttavia Glück scrive «ho bisogno di Te» e, in un mattutino scrive «perdonami se ti dico che ti amo».
Dopo questo splendido exploit letterario (in Italia l’altro libro tradotto è Averno dal piccolo editore napoletano Dante & Descartes), Glück ha scritto altre raccolte notevoli come Ottobre, dedicata al mese successivo agli attacchi terroristici alla sua New York, ma l’impressione che continua a riverberare nei suoi versi è che la grazia perennemente cercata sia proprio nella sua ricerca.
Antonio Monda, Rep