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 2020  ottobre 08 Giovedì calendario

Il paziente zero si chiama Edipo

Prima dei santi c’erano gli dei. Che le malattie le mandavano e le guarivano. Come Apollo, che in apertura dell’ Iliade sparge la peste tra gli eroi greci accampati sotto le mura di Troia. O ammorba Tebe, come racconta Sofocle nell’ Edipo re, per punirla di avere un sovrano che ha ucciso il padre e sposato la madre. E che, alla fine del dramma, scopre di essere lui stesso la causa del contagio. Perché l’"uomo dal piede gonfio” – questo significa letteralmente Oidipous – è il primo bubbone della polis. Con le parole di oggi, il paziente zero.
Il paradosso è che pur trattandosi delle due epidemie più celebri dell’immaginario occidentale, la parola epidemia, che noi usiamo con tanta facilità come sinonimo di qualsiasi male dilagante, al punto da farne una metafora etica e politica, non compare da nessuna parte. Eppure, si tratta di un antichissimo termine greco che sia Omero che Sofocle ben conoscono. Ma proprio per questo si guardano bene dall’usarlo. Parlano invece di nosos, nel senso di malattia. O di miasma, in quello di piaga morale. Il fatto è che allora la nozione di epidemia non appartiene ancora al vocabolario della medicina, ma a quello della teologia. O della geografia. E indica uno stato in luogo, un moto a luogo, o da luogo. Di un dio che appare nel suo santuario si dice che “epidemizza”. E così pure di un uomo che torna a casa. Come nel caso di Ulisse nella sua Itaca. In un bellissimo passo dell’ Odissea, Atena, la dea dagli occhi glauchi, dice a Telemaco «pensavo che tuo padre fosse tornato nella sua patria». Per definire quel ritorno, Omero ricorre all’espressione epidemion. Di fatto il grande poeta, o quella legione poetica nascosta sotto il suo nome, adopera il vocabolo alla lettera. Ne restituisce l’etimologia. Composta da epi, che significa sopra, in, presso. E da demos che vuol dire luogo, paese, villaggio. Quindi Ulisse è epidemico in quanto fa ritorno nella petrosa isola natia. Mentre noi quel demos oggi lo intendiamo come popolo. Insomma, gli antichi parlano della località, noi degli abitanti. Quello che per loro è uno spazio fisico per noi è uno spazio sociale. Un’ambiguità che rimane nello spagnolo, dove la parola pueblo significa sia la città che il popolo.
È nel V secolo prima di Cristo che Ippocrate, padre della medicina occidentale, dà al concetto di epidemia un’accezione nuova e lo infila nella nostra enciclopedia medica. Col significato di un male che dilaga di corpo in corpo. Anche se l’aura religiosa non scompare mai del tutto e rimane impigliata nel linguaggio, che fa oscillare costantemente il termine fra la dimensione fisica e quella etica, fra malattia e colpa. Ecco perché sono gli dei a far ammalare gli uomini e poi a guarirli. Prima per punirli dei loro peccati, poi per cancellare il debito. La stessa cosa accade in seguito con i santi cristiani che ereditano dai numi pagani il doppio ruolo di untori e guaritori. Ciascuno di loro ha il veleno in una mano e il farmaco nell’altra. Un esempio per tutti, san Paolo, che nell’immaginario popolare risana dal morso velenoso della tarantola, che però morde al suo comando. Tant’è vero che i tarantolati salentini lo chiamavano Santu Paulu meu de le tarante. Come dire il signore dei ragni.
E se è vero che nell’antichità ogni divinità ha il suo luogo epidemico, quello dove gioca in casa per intendersi, ce n’è una che invece è senza fissa dimora. È Dioniso – per i latini Bacco – il dio dell’ebbrezza e dell’estasi, lo straniero che danza, il principio attivo di una destabilizzazione che contagia i corpi e le anime. Nella prima scena delle Baccanti di Euripide, il dramma dionisiaco per antonomasia, il nume appare e dice «Tebe, eccomi, sono qui per sconvolgerti!». Ed è subito tragedia. Una febbre soprannaturale si diffonde a macchia d’olio tra la popolazione, con l’invasività di un virus, veloce come una freccia. Del resto in greco la parola ios, che vuol dire virus, significa anche saetta, forse in memoria dei dardi appestati scoccati da Apollo.
In queste “epidemie sacre” i greci mettono in scena i vantaggi e gli svantaggi del rapporto con tutto ciò che viene dall’esterno. Il disordine e la ricchezza della contaminazione, l’insidiosa e preziosa duplicità dello scambio. Che per gli antichi, come per noi moderni, è contatto ma è anche contagio. Ma in realtà, contatto e contagio sono due facce della stessa medaglia, l’endiadi costitutiva di quel corpo a corpo che è alla base della civiltà. E proprio a questa problematica insolubilità, che in un certo senso obbliga sempre a non scegliere, i nostri lontani antenati alludevano nei loro miti e nei loro riti. Ed è questa stessa insolubilità che oggi, in forma di virus, ha scatenato la tempesta perfetta nella nostra vita, facendo cortocircuitare pregi e difetti del sistema globale.
Ecco perché noi oggi siamo stretti in un dilemma insolubile come un responso d’oracolo. In bilico tra il desiderio di comunità e la ricerca di immunità. La voglia di vivere a stretto contatto con gli altri e il pericolo di essere contagiati. Un eccesso di apertura significa spalancare le paratie del male. Un eccesso di chiusura equivale ad un lockdown dell’anima.
Una volta per affrontare queste emergenze ci si affidava agli dei e ai santi. Ora attendiamo fidenti che il miracolo lo faccia la scienza. A meno che nel frattempo un dio non venga a salvarci.