la Repubblica, 8 ottobre 2020
Una mostra a Londra sui sette vizi capitali
Con una certa cautela e nel disordine della pandemia più o meno sempre lì, si riaprono i musei, ma non tutti osano, e infatti c’è chi si accontenta di una specie di smart working delle mostre, cioè si procura il catalogo da sfogliare a casa; poi si vedrà. Spesso i cataloghi sono blocchi di cemento pesanti in tutti i sensi, ottimi sul tavolino tra i divani per fare eventualmente bella figura ma illeggibili a letto se non si è sollevatori di pesi.
Ma può anche capitare che il catalogo sia leggero e leggiadro, in apparenza un libro qualsiasi, che abilmente contenga il triplo delle immagini in mostra, risultando così non proprio sufficiente, ma insomma meglio di nulla. Specialisti di queste non del tutto ingannevoli avventure di cataloghi più ricchi dell’esposizione ce ne è sempre di più, anche perché spesso la mostra dedicata a un supremo Maestro e venduta a scatola chiusa ad assessorati negligenti o nullatenenti da svelte organizzazioni, dell’encomiabile autore hanno solo poche opere, le altre di minor pregio collegabili per qualche ragione.
Poi ci sono i musei fai da te, come la ricchissima National Gallery di Londra, contenitore di massime meraviglie, che prende un suo capolavoro, gli mette attorno una ventina di opere altrettanto preziose, e ne fa una mostra epocale. Me ne ricordo almeno una di anni fa, dedicata ad Ambasciatori di Hans Holbein il giovane, un quadro gigante che, essendoci poco altro in sala, si poteva guardare per ore scoprendo un dedalo di oggetti misteriosi che ricostruivano un mondo perduto eppure vivo.
Una mostra simile, cioè senza eccessi di opere, si inaugura adesso, sempre alla National Gallery, arricchita da un titolo che si spera attiri una folla stremata dalle distanze fisiche imposte in questi mesi: Sin (Peccato): l’arte della trasgressione. Che non si speri in immagini licenziose dai graffiti alla digital art, non si tratta di oscenità o di reati sessuali, ma, appunto, di peccato, il che restringe le immagini ai sette peccati capitali, o ancor meglio al solo che pur sognando di praticarlo in eccesso, lo si continua a considerare un errore: la lussuria o qualcosa di simile, provvista, trattandosi di una trasgressione religiosa, di conseguente confessione e perdono. Ecco infatti un’opera di Andy Warhol, un acrilico in bianco e nero e nero e bianco, con la doppia scritta Repent and Sin No More! ispirata a quei foglietti che le sette religiose distribuiscono per strada, «Pentiti e non peccare più!». Mai esposta quando era in vita l’autore, la tela conferma ciò che l’artista non ha mai esibito, la sua spaurita fede cattolica. Questo pentimento del 1986 si confronta nella mostra con il perdono che Sant’Egidio concede a Carlo Magno per un peccato talmente innominabile da non riuscire a farglielo confessare. È un pannello sopravvissuto a una pala d’altare dipinta attorno al 1500 da un anonimo, che mette in ginocchio il re mentre il santo innalza l’ostia davanti a un ricchissimo altare tutto oro e statue, e naturalmente i visitatori a leccarsi le labbra cercando di immaginare cosa mai questo re dei Franchi avesse potuto fare. Arcigni storici tendenti al perverso ondeggiarono poi tra incesto e necrofilia, e questo ce lo racconta il catalogo. Il responsabile della mostra e autore del libro è un sorridente giovanotto grassoccio che si chiama Joost Joustra, di cui ho trovato scarse notizie se non che è specialista della cristianità nell’arte, di storia degli angeli e del Rinascimento italiano. In più è il consulente di una coppia americana, Howard e Roberta Ahmanson, ricchissimi filantropi che finanziano di tutto compreso questo Sin londinese. Trattandosi di una ricerca sul peccato, è ovvio che le protagoniste delle opere siano sempre le donne, la Madonna in quanto senza peccato, Maria Maddalena perché peccatrice pentitissima, Eva in quanto praticamente la prima responsabile dell’eterno malocchio, Venere perché massima tentatrice da cui star lontano perché capace di rendere debole anche il più forte e santo degli uomini. Uomini comunque sempre innocenti, nella storia dell’umanità scritta sin dal principio da loro stessi, bravi a scagionarsi e a incolpare gli altri, o meglio le altre. Guardate l’Adamo ed Eva di Lucas Cranach il Vecchio, i loro corpi nudi giovani e ancora puri, una foglia di vite sulle pudenda, e lei lo guarda infantilmente sporcacciona, mentre lui sta prendendo dalle sue mani la famosa mela rossa e si gratta la testa dai riccioli fulvi, poco convinto ma incapace di resistere!
E quella tentatrice di Venere? Quella del Bronzino, acquistata da Francesco I re di Francia che se la godette solo un paio d’anni prima di morire, è stata sottoposta ad ogni tipo di ricerca cominciando dal Vasari: infatti il quadro si intitola furbamente Venere e Cupido, e massime teste pensanti hanno perduto tempo prezioso non ad ammirare, da maschi peccatori, il seno della bella signora tutta nuda, ma da studiosi: valutando se un orribile volto seminascosto potesse rappresentare la sifilide e altri mascheroni la gelosia o l’invidia, l’inganno o la frode. Comunque è interessante apprendere che a metà del XVI Secolo un re francese e la sua corte si godevano la carnale dama in piena soddisfazione, mentre già Luigi XIV, che pure apprezzava le sue dame, fece coprire l’inguine di Venere con un velo, e le natiche prominenti di Cupido con foglie di mirto. Figuriamoci il ludibrio dei vittoriani: nel 1860 il primo direttore della National Gallery, Sir Charles Eastlake acquistò il Bronzino dalla collezione parigina di Beaucousin che l’aveva avvertito, «il quadro è molto sconveniente, io l’ho sempre tenuto coperto da una tenda». A Sir Eastlake non bastò, e infatti fece cancellare altre pericolosità, come il di lei capezzolo che Cupido tiene tra le dita. Solo nel 1958 il museo ebbe il coraggio di ridare all’allegoria peccaminosa la sua completezza originale. Erano tempi in cui i peccati riferibili al sesso erano i più stigmatizzati e quindi i più ricercati. Così improvvisamente aveva suscitato enorme scandalo al Salon parigino del 1857 un Courbet: che pure non era la vituperata L’Origine du monde, dipinto qualche anno dopo, ma Les Demoiselles des bords de la Seine.
A noi, abituati a sbadigliare anche per le immagini più impudiche, ci pare di vedere due signorine pensierose in crinolina distese su un prato, invece l’epoca ci vide ogni diavoleria: due donne distese? Forse in fastosa biancheria che a noi pare toilette per l’opera? Un accenno al lesbismo? Due puttanelle? E ancora peggio, sullo sfondo, quasi invisibile, un berretto maschile su un barchetta?
E certo non poteva mancare Tracey Emin, star dei tempi favolosi dei Young British Artists, che per quanto noi tutti rivoluzionari, ci procurò qualche brivido di perbenismo nel 1997 esponendo alla Royal Academy (allora si andava sempre a Londra, se non altro per i mercatini di cianfrusaglie) l’installazione Tutti quelli con cui ho dormito dal 1963 al 1995, azzerando poi il nostro desiderio di essere all’ultima moda al Turner Prize 1999, dove esponeva Il mio letto, mai più dimenticato; appunto il suo grande letto sfatto e lievemente puzzolente, con macchie di sangue e altro, preservativi usati, mozziconi di sigaretta, bottiglie di vodka vuote, pillole anticoncezionali.
Qui non ce ne è traccia perché il tempo passa e anche l’audace artista ha 57 anni e forse vira dal pluripeccato alla confessione in vista del pentimento e del perdono. Di lei è esposta la copia di una sua opera del 2010, una scritta affrettata e nervosa in un neon molto brillante che dice, anzi confessa, It Was Just a Kiss. Quando non hai più voglia di peccare, o non ne hai più l’occasione, non c’è che confessare un leggiadro ricordo senza peccato.