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 2020  ottobre 07 Mercoledì calendario

Intervista a Johnny Depp

L’unica richiesta di Johnny Depp prima dell’intervista — evento ormai raro — è che non si affrontino matrimoni e divorzi, anche per motivi giudiziari. La nube processuale ha offuscato la sua stella a Hollywood mettendo in secondo piano un talento ancora vivo. Lo si è visto all’ultima Berlinale con Minamata , in cui ha offerto una misurata e toccante interpretazione del fotografo di guerra W. Eugene Smith, e anche nel crudele colonnello cesellato in Waiting for the Barbarians che sta facendo incassi lusinghieri nelle nostre sale.
Nel film, scritto dal premio Nobel J.M.Coetzee, diretto da Ciro Guerra, prodotto e distribuito da Iervolino, Depp, 57 anni, è un colonnello incaricato di scoprire tentativi di ribellione negli avamposti di frontiera a suon di interrogatori e torture, mentre il magistrato Mark Rylance rivendica trattamenti più umani per i prigionieri.
Ha detto che il suo colonnello non è un vero cattivo ma un bambino spezzato. I cattivi non esistono?
«Penso che non si considerino tali.
Non si svegliano la mattina pensando: a chi posso fare del male oggi? Ci sono uomini che si convincono di agire per un bene superiore, il fatto che noi vediamo quel loro bene come un male ci conferma la loro posizione di nostri nemici».
Che esperienza è stata questo film?
«Sublime. Abbiamo girato a poca distanza da Marrakech, ho un profondo affetto per il Marocco e la sua gente, c’è una grande gentilezza nei loro occhi. Da tanto volevo girare con Mark Rylance, abbiamo trascorso molto tempo con lui e sua moglie Claire. Ero preoccupato che fosse troppo serio per reggere il mio ottuso senso dell’umorismo, mi sbagliavo. È esilarante e geniale. E stimo Robert Pattinson, non ha lasciato che la grande illusione della fama lo ingoiasse, ha evitato di diventare un ragazzo poster, ha fatto scelte difficili spingendo il suo talento».
Chi sono i barbari, oggi?
«Di certo non credo che siano là fuori. I veri barbari sono dentro i grandi palazzi, dietro le grandi porte. Dove sono sempre stati».
Il libro e il film ci fanno pensare alla divisione sempre più profonda tra gli uomini dietro le grandi porte e quelli fuori.
«Il film parla dell’oggi. Non è mai stata così ampia la separazione tra chi ha e chi è indigente, tra chi ha il potere e chi non conta. È stata a lungo la strada dell’Occidente, dividi e conquista. Strategia semplice, mantenere i popoli in uno stato costante di paura, di ignoranza, per impedire la ribellione. A questo si aggiunge la paura irrazionale dell’altro, la mancanza di empatia e compassione che aumenta e mi preoccupa. Abbiamo perso la capacità di confronto, di cogliere le sfumature, di accettare i disaccordi.
È tutto polarizzato, clicca e fuggi: bastano 140 caratteri per suscitare reazioni furiose. Mi preoccupo per la nostra specie».
Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia.
«Negli ultimi anni ho trascorso molto tempo in Italia, in particolare a Venezia. A parte la Mostra, ho girato The tourist con Angelina Jolie: città impossibile, incredibile, unica. Come si fa a non amarla?».
Ama anche il cinema italiano?
«Sono un fan di Luca Guadagnino, il suo lavoro è sublime. Poi c’è Benigni.
E i vecchi maestri Antonioni e Fellini. Cosa darei per aver lavorato con loro».
Marlon Brando è stato il gigante ribelle di Hollywood. Lo considera il suo mentore?
«Sì. Sono stato benedetto con il dono non solo di lavorare con lui, ma di diventare suo amico. Era un fratello, un padre. Mi ha compreso, si è preso cura di me. Sapeva farmi ridere ovunque. Penso di aver fatto lo stesso con lui. Questo abbiamo fatto: ci siamo seduti e regalati sorrisi».
La sua prima passione è stata la
musica, che dura ancora con gli Hollywood Vampires.
«È il mio primo amore, la uso in tutti i lavori, è un volo diretto verso un tempo e un luogo. Un suono ti riporta a un sentimento, a un’emozione dentro di te, la tira fuori dal passato per servire uno scopo».
Quando ha capito che aveva il dono della recitazione?
«Non l’ho ancora capito. I doni sono le persone con cui lavori sul set. E quelle che incontri nel mondo. Che ti restano accanto con la pioggia e con il sole. Sono gli unici doni che contano. Il resto è ignoranza eterna».
Cos’ha imparato facendo il regista con "The Brave"?
«Che devi fidarti degli attori. Non ho mai fatto provini, ho incontrato persone e fatto le mie scelte. Poi ci metti il tuo cuore, il sangue, il denaro, ogni cellula cerebrale che possiedi. E poi lasci che gli altri facciano a pezzi il film. Come gli avvoltoi».
Dirigerà ancora?
«Mi piacerebbe, basta che non debba dirigere me stesso. Vedremo il prossimo anno».
Il momento più felice della sua carriera?
«Sarà il giorno in cui andrò in pensione».
Qual è la qualità umana più importante?
«L’umorismo, che per me significa irriverenza».
Cosa la fa ridere?
«I miei figli. Mia figlia, mio figlio. La loro brillantezza. Guardarli diventare esseri umani realizzati.
Sono l’unico motivo per cui mi alzo ogni mattina».