la Repubblica, 7 ottobre 2020
Biografia di Roger Penrose
Attenti a quei due, devono aver pensato nella Cambridge di metà anni Sessanta, prevedendo le loro carriere luminose nel firmamento della cosmologia. Il primo, un ventenne Stephen Hawking, sarebbe diventato l’icona dello scienziato, per gli indubbi meriti accademici, ma anche per la sua particolare condizione di pura intelligenza intrappolata in un corpo inerme. Il secondo, Roger Penrose, più grande di nove anni, ieri è stato finalmente consacrato con il premio Nobel per la Fisica.
Fu proprio Roger Penrose a raccontarci, nel corso di un’intervista, come era nata la coppia d’oro della cosmologia britannica. «Conobbi Stephen a Cambridge. Nel 1964 avevo tenuto a Londra una conferenza sulla Relatività generale e l’astrofisico Dennis Sciama, che mi aveva preso sotto la sua ala protettiva, mi aveva invitato a replicarla a Cambridge l’anno successivo. In quell’occasione Stephen, uno degli studenti di Sciama, era tra il pubblico. E qualche tempo dopo pensò di usare le mie formule per descrivere il collasso di un buco nero». Da lì sarebbe iniziata una collaborazione fatta di teorie sui black hole, onorificienze, pubblicazioni scientifiche e libri divulgativi scritti a quattro mani. Una capacità comune ai due, quella di studiare fenomeni complessi per poi raccontarli al grande pubblico. E anche quando sono andati ciascuno per la sua strada è come se avessero continuato a muoversi su percorsi paralleli. Hawking pubblicò nel 1988 il libro che lo avrebbe reso celebre in tutto il mondo, Dal big bang ai buchi neri, Penrose rispose l’anno successivo con La mente nuova dell’imperatore. E quel suo saggio, dedicato alla difficoltà di comprendere l’intelligenza umana perché si sottovaluta il ruolo che in essa giocherebbe la fisica quantistica, spiega meglio di qualsiasi biografia la peculiarità di Roger Penrose: un matematico- cosmologo che si è interrogato non solo sui misteri dell’Universo ma anche su quelli della coscienza e della morte. Che non ha mai temuto di sfidare la comunità accademica avanzando ipotesi spregiudicate. Come il “modello cosmologico ciclico”, in cui, semplificando, la fine di universo coincide con il big bang di quello successivo. O demolendo teorie altrui, per esempio quella delle Stringhe, che tenta di conciliare meccanica quantistica e Relatività generale introducendo una serie di dimensioni aggiuntive alle quattro che conosciamo. Uno scienziato stimato ma che negli ultimi tempi non nascondeva di sentirsi isolato. «I miei studi non vengono presi in considerazione e i miei studenti se vogliono fare strada devono abbandonare le ricerche che seguono con me».
Quando lo incontrammo nell’Istituto di Matematica dell’Università di Oxford, di cui è professore emerito, ci raccontò le origini “familiari” della sua curiosità. «Mio padre era un genetista, lavorava sul concetto di intelligenza per capire quanto fosse ereditaria e quanto determinata dall’ambiente. Proveniva da una famiglia di banchieri, però mio nonno e i tre fratelli di mio padre avevano talento artistico. Uno in particolare, Roland Penrose fu buon amico di Picasso e Man Ray. Il più piccolo dei miei quattro fratelli è stato invece dieci volte campione inglese di scacchi. Anche mia madre era medico e io avrei voluto fare il neurochirurgo, ma la matematica mi conquistò: lasciai biologia, facendo arrabbiare mio padre, per studiare allo University College di Londra e poi a Cambridge. Lì frequentai tre corsi che mi avrebbero cambiato la vita: logica matematica, Relatività e cosmologia, infine meccanica quantistica, spiegata da uno dei suoi fondatori, Paul Dirac. Studi che, sommati agli interessi familiari per la biologia, mi hanno portato a cercare un punto di incontro tra meccanica quantistica e vita». «La scienza è ancora capace di produrre meraviglia», disse congedandosi. «La Relatività generale è esemplare da questo punto di vista: per molto tempo è stata percepita come una teoria distante, ma poi sono arrivate le prove, ultima la scoperta delle onde gravitazionali. Persino Einstein non accettava facilmente tutte le conseguenze previste dalla sua teoria. Quindi sì, ci si può ancora meravigliare con la scienza». Chissà se Roger Penrose si è meravigliato ieri, quando ha ricevuto la telefonata da Stoccolma che gli comunicava il Nobel. E chissà se ha pensato al suo amico e collega Stephen, scomparso nel 2018. Se l’Accademia delle scienze svedese ci avesse messo meno a riconoscere il loro lavoro, è probabile che il premio sarebbe andato sia a Penrose che a Hawking, i due ex ragazzi terribili di Cambridge.