Corriere della Sera, 7 ottobre 2020
1QQAFA10 Da "La Tavoletta dei Destini" di Roberto Calasso
1QQAFA10
Anticipazione Esce domani per Adelphi «La Tavoletta dei Destini», nuovo tassello dell’opera «in progress» cominciata nel 1983 da Roberto Calasso. Che qui affronta l’epica mesopotamica
Era una tempesta diversa da tutte quelle che aveva già attraversato. E ormai era abituato ai naufragi. Scandivano il tempo. Servivano a ricordare. Una certa cosa era successa prima del terzo naufragio, un’altra dopo il quinto. Sindbad sentiva, più che angoscia, una strana, ebbra incoscienza, quasi un senso di sollievo. Non solo aveva perso la rotta, ma i punti cardinali erano scomparsi. Fu la sua ultima osservazione precisa. Non poteva dire nulla di ciò che era avvenuto subito dopo, fino al momento in cui aveva aperto gli occhi sotto una tenda. Una brezza la scuoteva leggermente. Aveva dormito, ma quanto? Giorni? Anni? Nell’oscurità riconobbe una figura. Immobile, distesa. Un altro dormiente. Sindbad tacque a lungo. Poi l’altro si risvegliò, lo guardò e disse:
— Ti trovi da Utnapishtim, a Dilmun —.
Utnapishtim si alzò e schiuse la tenda. Lasciò entrare una lama di luce, parallela a Sindbad, ancora disteso. Si sedette su uno sgabello accanto a lui e disse:
— So chi sei. Non devi dirmi nulla. Se vorrai ascoltarmi, sarò qui —.
Poi tutto tornò a essere confuso, per Sindbad. Quando si svegliò di nuovo, ebbe l’impressione di una piena chiarezza. Utnapishtim era sempre seduto sullo sgabello. Disse:
— Ho taciuto così a lungo, non so da dove cominciare. Anche da qualsiasi punto, si potrebbe. Ma un antico uso vuole che tutto cominci dagli dèi —.
Ci fu una pausa. Poi la voce riprese:
— All’inizio gli dèi camminavano sulla terra. Si davano da fare. Scavavano canali, alzavano muri. Soprattutto, cercavano l’acqua. E faticavano. Sentivano che un giogo pesava su di loro. Gli dèi non erano tutti uguali. C’erano dèi superiori e dèi inferiori. Gli Anunnaki si erano ritirati in cielo. Avevano lasciato gli Igigi a penare sulla terra. Era inevitabile che un giorno si rivoltassero. Gli uomini avrebbero imparato da loro. Gli Igigi scavarono il letto del Tigri. Mormoravano accanto ai mucchi di terra che avevano rimosso. Erano sempre più esasperati. Non rimaneva che ammutinarsi e assaltare il cielo. Enlil il guerriero, il consigliere, fu scosso dal suo letto. Sbarrarono tutte le porte. Chiesero aiuto a Anu, che aveva avuto in sorte il cielo, e a Ea, fra le acque dolci sotterranee. Enlil piangeva. Non sapeva che fare. Anu diede ragione agli Igigi. Era vero che faticavano troppo, il loro chiasso arrivava in cima al cielo.
Allora gli dèi capirono che dovevano crearsi dei sostituti: gli uomini. Ma come? Perché vivessero veramente, occorreva che un dio fosse ucciso. Mami, la levatrice, avrebbe impastato l’argilla con il sangue di quel dio, che si chiamava Geshtue. Gli altri dèi si sarebbero purificati, tre volte in un mese, immersi nell’acqua. Uno spirito penetrò nell’argilla, con il sangue di Geshtue. E l’argilla cominciò a pulsare. Da quel momento, lo spirito ricordò il dio a cui era appartenuto.
Mami entrò nella camera del destino, insieme a Ea. Cominciò a impastare l’argilla, rigata di sangue. E sussurrava uno dei suoi incantamenti, perché prima di tutto era una maga. Sette pezzi di argilla a destra, sette a sinistra. Diventarono i maschi e le femmine. Poi mise in mezzo un mattone di fango. E da noi tutto comincia con i mattoni di fango. Poi lo tagliò a metà con una canna e accostò, uno per uno, i pezzi di argilla. Altro non ci voleva. Di lì a poco quegli informi pezzi di argilla presero ad accoppiarsi. Ishtar li osservava, contenta.
Chi fece capire agli Anunnaki che cosa occorreva fu Ea, il mio protettore. Ea è sempre stato quello che vede più lontano. Da soli, gli Anunnaki si sarebbero persi in perpetui conflitti. Ma Ea disse le parole decisive: «Che gli uomini portino il peso degli dèi!». Parole semplici, di cui tuttora viviamo. Di cui tu, Sindbad, vivi. Dicono l’essenziale: il peso, gli dèi. Tutto il resto è un’aggiunta.
Di Geshtue non ho molto da dire. Il suo nome significa orecchio e nessuna impresa memorabile gli è attribuita. Ma so che era considerato intelligente. Forse per questo fu scelto. Lo uccisero tutti insieme, durante il concilio degli Anunnaki. Tutti insieme nel sangue, tutti insieme purificati nell’acqua. Nell’acqua di Ea.
Non ho mai capito perché un dio dovesse essere ucciso, se gli uomini avevano da esistere. Comunque non fu Ea a suggerirlo. Aveva detto soltanto che occorreva trovare creature che potessero prendere il posto degli dèi. Ma gli Anunnaki furono tutti d’accordo per l’uccisione. E quell’atto doveva accadere in un certo luogo: lungo il Durmahu, quel vincolo, quella corda, quell’asse che lega il cielo alla terra. Me lo confermarono i sette Apkallu, le Carpe Sante, i Sette Sapienti di Ea, che erano anche i miei parenti più stretti.
Queste storie degli dèi e dei pesi te le ho raccontate anche perché, quando vivevi a Baghdad e non avevi ancora incontrato Sindbad il Marinaio, ti chiamavano Sindbad il Facchino. Andavi in giro tutto il giorno con grossi pesi sulla testa. Spostavi mercanzie da un punto all’altro.
E questa era tutta la tua vita –.
— Ishtar, quando ancora si chiamava Inanna, desiderò lasciare il Grande Alto per scendere nel Grande Basso, in visita alla sorella maggiore Ereshkigal, che regnava laggiù. Gli Anunnaki inorridirono. Erano dèi stabili, abituati soltanto a passare, in certi giorni, dall’uno all’altro dei loro templi, in nove città, sempre fra i due grandi fiumi. Ignoravano l’idea del viaggio. L’avrebbero aborrita. Per Inanna, anche la guerra era una forma del viaggio. Ogni scontro era la tappa di una esplorazione. E allargava il suo territorio. Ora aveva deciso di scendere nell’unico luogo da cui non era concesso il ritorno.
Inanna disse che voleva scendere agli Inferi per prendere parte ai riti funebri per il Toro del Cielo, sposo di Ereshkigal, che Gilgamesh aveva ucciso e smembrato insieme a Enkidu. Ma era un pretesto. Le costellazioni non si possono uccidere.
Ciò che Inanna voleva era soltanto mettere piede agli Inferi. E tornare. Allora avrebbe potuto dire che gli Inferi erano un altro suo territorio. Soltanto l’insolente, temeraria Inanna poteva pensare di scendere da Ereshkigal come fosse una visita fra parenti. Sontuosamente truccata, con orecchini, collane, bracciali, anelli, corsetto e mantello, che erano altrettanti me e avrebbero dovuto farle schivare ogni attacco, Inanna si avviò verso gli Inferi. Incontrò sette cancelli, con le sbarre coperte da strati di polvere. A ciascuno dei cancelli, Inanna dovette cedere uno dei suoi ornamenti e dei suoi poteri. Alla fine, entrò senza difese nel regno della sorella Ereshkigal. Non si sa che cosa successe dopo. Riapparve appesa come una carcassa al gancio di un macellaio. Nuda, morta, così rimase per tre giorni e tre notti. Nessuno degli dèi supremi volle soccorrerla, eccetto Ea, che foggiò subito due demoni per darle acqua e vino e farla rivivere. Poi le dissero che poteva tornare da dove era discesa. L’avrebbero scortata i sette demoni Galla, che erano come canne acuminate. Ma c’era una condizione: un sostituto avrebbe dovuto prendere il suo posto negli Inferi, per sempre. La prima a venirle incontro fu la fedele Ninshubur, sua ombra protettrice. China a terra, Ninshubur si offrì subito come sostituto di Inanna. I demoni sarebbero stati d’accordo. Non però Inanna, che non voleva perdere il prezioso ausilio di Ninshubur. Soltanto a lei si doveva se i suoi me erano stati salvati, quando Ea voleva recuperarli. Lo stesso accadde con Shara, cantore e acconciatore di Inanna. «Non ve lo lascerò mai» disse Inanna ai Galla. E lo stesso si ripeté con Lulal, che era il suo scudiero. Inanna non avrebbe saputo rinunciare a quei fedeli e alle loro mansioni.
Finalmente arrivarono al Grande Melo, a Kulaba, la zona di Uruk dove Inanna usualmente risiedeva. C’erano dei pastori che suonavano i loro flauti. Dumuzi stava seduto, immobile. Davanti a lui, un ampio palco. Si sarebbe detto che nulla lo turbasse. Ma come poteva ignorare le traversie della sua amante? L’aveva forse dimenticata? Lo sguardo di Inanna era letale. Inanna disse: «È lui! Prendetelo!». I Galla lo afferrarono subito per le gambe. Poi lo legarono e lo picchiarono. Dumuzi si appellò a Utu, al Sole, perché lo salvasse. Scivolò fra le mani dei Galla come un serpente. E trovò rifugio da sua sorella Geshtinanna. Anche lì i Galla lo ritrovarono e catturarono. Non c’era modo di sfuggire. Dumuzi non era più l’amante di Inanna. Era il suo sostituto negli Inferi, scelto dalla stessa Inanna.
I sette demoni Galla avevano l’unica mira di conquistare sempre nuovi abitanti per gli Inferi. Dumuzi, giovane dio, era la più preziosa delle prede, per loro. Lo assillarono, perseguitarono, assediarono, ma non bastava mai: lo volevano morto. Alla fine, Dumuzi fu intrappolato e ucciso nel luogo che gli era più familiare: la sua capanna di pastore.
Il corpo esanime venne coperto con una pezza di lino, come un paniere di datteri. Accanto c’era un cane che mangiava qualcosa e poi si accucciò ai piedi di Dumuzi. C’era anche un corvo, nella capanna. E anche il corvo mangiò qualcosa. Poi volò via. Nella notte si avvicinò Inanna. Ripeteva sempre le stesse parole: «Oh tu che qui giaci, tu vegliavi su di me!». Volle lasciare un suo dono, accanto al corpo disteso: un otre pieno d’acqua. «Indispensabile nel deserto» diceva Inanna tra sé.