Linkiesta, 6 ottobre 2020
Il Complesso di superiorità della sinistra americana
Sono molto preoccupata per gli americani. Sono sempre stati una nazione preoccupante, nella quale a nessuno sembrano strane certe usanze che, se arrivi da fuori, spiccano in tutta la loro follia.
Hanno con le armi da fuoco un rapporto che forse poteva avere un senso quando c’era da domare la frontiera, ma che adesso si sentano privati della loro libertà se gli levi il fucile – e non solo quelli che abitano in mezzo al nulla, pure gente che vive nella civiltà – ecco, non mi pare tanto sano di mente.
Hanno accesso all’aborto legale solo perché una sentenza della Corte Suprema ha stabilito che le operazioni che ti fai sono fatti tuoi, c’è la privacy: possono abortire per lo stesso cavillo per cui non puoi mandarmi la pubblicità della tua pizzeria se non ti autorizzo. Qui mi mandano pubblicità non autorizzate comunque, lì gli invasati ti sparano fuori dalle cliniche abortiste.
Sono convinti che la sussistenza d’una cameriera non debba dipendere dal ristoratore che la impiega ma dal cliente che deve lasciare un quinto in più del totale del conto volontariamente – volontariamente ma obbligatoriamente, se non vuole fare la figura del pezzente e pure fascista. Quale verrà apostrofato, da gente che si guarda bene dal pretendere che i proprietari di ristoranti paghino stipendi civili come nel resto del mondo.
«Non vogliono che votiate. Come faccio a saperlo? Perché le elezioni sono un martedì di novembre. Qualcuno di voi ha mai preso un impegno importante un martedì di novembre? Nessuno si sposa, il martedì. Non si va a messa, il martedì. Se questo programma fosse andato di martedì, l’avrebbero chiuso nel 1975». L’ha detto Chris Rock sabato sera in un programma comico, perché le scemenze su cui è fondata una nazione puoi farle notare solo in forma di battuta: in America votano di martedì, residuo di quando ci volevano tre giorni per arrivare ai seggi in calesse, e non è un festivo, col risultato che devi prenderti un permesso dal lavoro (in un posto in cui mancare un giorno dal lavoro è una procedura meno disinvolta che qui).
Infine: se vogliono votare, devono ricordarsi d’iscriversi ad apposite liste elettorali.
Questa forse è la più folle di tutte.
Se la racconti a gente che non sa granché d’America, e alla quale sui social non è passato davanti neanche un invito a “register to vote”, essa gente penserà tu stia delirando: non basta essere cittadini d’un posto, per avere diritto di voto, come nel resto del mondo? Macché.
Se chiedi perché, ti dicono che è la naturale prosecuzione del non voler far votare i neri o le donne: «Se non ci fosse l’obbligo di registrarsi, i repubblicani non vincerebbero mai più un’elezione, e lo sanno», mi ha detto un tizio responsabile delle pagine di politica in un giornale americano.
Il che spiegherebbe perché i democratici, da Michelle Obama in giù, trascorrano i mesi prima delle elezioni a ripetere d’iscriversi alle liste elettorali. Non è perché sarebbe inelegante dire «votate per noi», mentre è invece assai chic dire «l’importante è che votiate». Non è neanche perché hanno un tale complesso di superiorità che pensano che, se convinci qualcuno ad andare a votare, poi quello voterà per te.
È perché, giura chi ne capisce, effettivamente quelli che non s’iscrivono a votare (troppo ignoranti? troppo pigri? troppo qualunquisti?) voterebbero a sinistra, se s’iscrivessero.
Non sono sicura sia una buona notizia per la sinistra, ma la domanda successiva è: e allora perché, da che ho memoria, ho sempre letto inviti – da sinistra – a iscriversi alle liste elettorali, e mai qualcuno che dicesse: ma che è ’sta roba, eliminiamo questo assurdo obbligo?
La risposta potrebbe fungere da risposta alla domanda sulle armi, o a quella sulle mance: «È una tradizione, è incorporata nella nostra cultura». Noi parcheggiamo in doppia fila, loro possono votare solo se si ricordano di prenotarsi.
C’entra anche, mi spiegano, la diffidenza degli americani per le regolamentazioni federali. Quando, quasi cinquant’anni fa, Gigliola Cinquetti cantava «qui comando io, e questa è casa mia», probabilmente parlava degli americani e della loro bislacca idea di libertà; quella secondo la quale, se Washington dice al Texas di eliminare le liste elettorali, è un sopruso, un’ingerenza, un’inaccettabile vessazione.
Resto col sospetto che ci sia una parte politica che preferisce credere che, in un mondo ideale, senza liste elettorali, vincerebbe tutto e sempre; che preferisce crogiolarsi in quella che in psicanalisi junghiana si chiama “vita provvisoria”, invece di provare a fare qualcosa per cambiare la realtà.
Che la sinistra americana somigli a Fassino in quella notte elettorale in cui era segretario dei Democratici di sinistra e, al conduttore televisivo che gli chiedeva di commentare la sconfitta, rispondeva vieppiù stizzito che lui aveva altri dati, determinato a credere ai sondaggi anche quando essi erano superati dallo scrutinio delle schede con le loro brave croci copiative.
Durante la presidenza Obama, Ruth Bader Ginsburg non si dimise dalla Corte Suprema perché era certa che avrebbe vinto Hillary Clinton: a prendere il suo posto sarebbe stato il primo giudice (più plausibilmente: la prima giudice) nominata da una presidente donna.
Com’è andata lo sappiamo, ma la certezza di vincere (la vita provvisoria) pare identica adesso, che ci si agita per Amy Coney Barrett giacché si è sicuri che, aspettando un mese, ci sarebbe un presidente democratico a incaricare nuovi giudici.
Nella vita provvisoria che si vive a sinistra, non si dà l’ipotesi che l’impresentabile Trump vinca di nuovo. Se dovesse accadere, possiamo sempre dire che è stata colpa dei collegi elettorali, della complicazione dell’iscrizione alle liste, delle cavallette.