la Repubblica, 6 ottobre 2020
Reportage dal Nagorno-Karabakh
SHUSHI (NAGORNO-KARABAKH) — Sono ovunque le cicatrici dell’eroica battaglia della primavera 1992, quando le milizie armene riuscirono a espugnare al prezzo di migliaia di vite la capitale culturale del Nagorno- Karabakh, fortificata da mura ciclopiche in cima a un monte che sfiora i 1.800 metri. Molte chiese e molte moschee di Shushi sono ancora cumuli di pietre, così come sono in rovina gli edifici di numerosi quartieri, mai ricostruiti per i tanti morti e tanti profughi provocati dalla guerra che da allora oppone i secessionisti appoggiati dall’Armenia all’esercito dell’Azerbaijan. La cattedrale di Ghazanchetsots, il cui campanile fu scapitozzato dagli azeri prima della disfatta, è stata però restaurata quasi subito, come un simbolo di rinascita, per farla nuovamente svettare, massiccia e solitaria, sulla collina più alta della città.
«In epoca sovietica, la cattedrale era usata come granaio e come garage, mentre gli azeri ci tenevano le armi», racconta Arman Gorodnichi, un giovane sacerdote che incontriamo in cattedrale. «L’Azerbaijan vuole riconquistare queste montagne perciò terrorizza la popolazione bombardandola pesantemente per spingerla a fuggire», continua il prete che ci conduce nel vasto scantinato della canonica, dove hanno trovato rifugio diverse famiglie da quando, sabato scorso, Baku ha cominciato a bersagliare Shushi e Stepanakert, la piccola capitale dell’autoproclamata repubblica del Karabakh, con l’artiglieria pesante e con i droni da combattimento uccidendo e ferendo decine di civili. «Ma non lasceranno la città neanche se la bombardano con l’atomica, perché si considerano i custodi della cultura e della religione cristiana a cui da sempre ha fatto riferimento il popolo di questa terra. Sono consapevoli che ogni muro e ogni strada di Shushi è stato costruito nei secoli con il sudore dei loro antenati. Sono sopravvissuti a molti massacri e sono certi che sopravviveranno anche a una possibile, nuova invasione azera».
Per capire le radici del conflitto che funesta quest’enclave basta esaminare la storia della città che già due secoli fa fu separata in due aree ben distinte: in una vivevano i musulmani azeri, nell’altra i cristiani armeni. Dopo la conquista bolscevica del Caucaso nel 1920 per volere di Stalin, queste montagne furono arbitrariamente assegnate all’Azerbaijan. «Lo stesso anno, dopo la richiesta della maggioranza dei suoi abitanti di venir annessi all’Armenia, la repressione dell’esercito fu durissima fino a trasformarsi in un pogrom, con turchi e azeri che arrivarono da oltre confine e che, soltanto a Shushi, massacrarono ventimila armeni», racconta il prete.
Paradossalmente, sebbene la cattedrale di Ghazanchetsots sia la sede della diocesi della chiesa apostolica armena del Karabakh, il monumento più prezioso di Shushi è una splendida moschea persiana costruita alla fine dell’Ottocento, anch’essa chiusa durante il comunismo sovietico e anch’essa danneggiata dai violenti combattimenti del 1992. Con due eleganti minareti costruiti in mattoni e un edificio centrale in pietra, la moschea Govhar Agha è stata recentemente restaurata da una fondazione armena. «In città non è rimasto un solo musulmano, ma questa moschea fa parte del nostro patrimonio storico-artistico e andava quindi protetta e riportata ai suoi antichi splendori», dice ancora Gorodnichi. «Durante i lavori di ricostruzione, sotto la scuola coranica della moschea, sono stati rinvenuti i resti di un mausoleo proto-cristiano, perché com’è accaduto spesso in questa regione, l’ultimo a conquistare una città ha costruito i suoi luoghi di culto su strutture preesistenti».
Il prete ci vuole mostrare un altro sito alle porte di Shushi, che inizialmente pensiamo si tratti di un’attrazione turistica dopo aver letto la scritta, anche in inglese, riportata su un’insegna arrugginita: Hunut gorges, le gole di Hunut, che in un panorama fiabesco si aprono ripidissime tra pareti di roccia sovrastate da boschi rigogliosi. «È da queste rupi che dopo averle violentate i turchi e gli azeri buttavano di sotto le armene incinte», dice il prete con lo sguardo rivolto ve rso l’orrido. Quando gli diciamo che poco prima il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, s’era detto «profondamente preoccupato dall’escalation delle ostilità» e che aveva chiesto alla Turchia di usare la sua «considerevole» influenza su Baku per calmare le tensioni, il prete scoppia a ridere. Poi, dice: «L’Azerbaijan non ci avrebbe mai aggrediti senza l’appoggio, o meglio, l’incoraggiamento di Ankara. Siamo un sassolino nella scarpa di Erdogan che vorrebbe estendere il suo impero dai Balcani alla Cina. Ma in mezzo ci siamo noi».
Torniamo in fretta nel seminterrato della canonica, per pranzare assieme alle famiglie ospitate dalla diocesi. Vediamo soprattutto anziani, donne e bambini, perché come ci spiega Gorodnichi, ogni volta che si riaccende questa guerra, gli uomini dai 18 ai 70 anni creano un esercito di volontari, come se tutta la popolazione maschile fosse composta da riservisti. Un razzo sparato dall’Azerbaijan esplode a poche centinaia di metri. «Per fortuna, ancora risparmiano le chiese», dice il prete. «Ma li conosco: tra qualche giorno non si faranno più scrupoli. E allora diventeremo noi il loro primo bersaglio».