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 2020  ottobre 06 Martedì calendario

Le allegre stime sul debito

Da quando esiste lo Stato unitario il punto più alto del debito pubblico è stato raggiunto alla fine della Grande guerra, dopo un colossale sforzo bellico e nel pieno di una pandemia – la febbre spagnola – che spazzò via mezzo milione di italiani in pochi mesi. Nel 1919 l’attività economica cadde del 4% e il debito raggiunse il 160% del prodotto lordo (lo ricostruiscono Fabrizio Balassone, Maura Francese e Angelo Pace della Banca d’Italia). Non è chiaro dunque se da ieri dovremmo consolarci perché, per un soffio, quest’anno riusciamo a evitare di rivedere quei livelli. La «Nota di aggiornamento» di finanza pubblica approvata ieri dal governo informa che il debito dovrebbe fermarsi al 158% del Pil, giusto sotto il record di un secolo fa. Eppure questa volta non usciamo da una guerra e Covid-19, per fortuna, non sembra aggressivo come la spagnola. Semplicemente, arriviamo a questa prova dopo un ventennio durante il quale l’economia – prima della catastrofe degli ultimi mesi – era cresciuta al ritmo premoderno dello 0,2% l’anno.
Adesso siamo in una fase così delicata della vita del Paese che non ha senso pretendere una stretta di bilancio per rimettere a posto i conti. Nessuno sa dire oggi per quanto tempo ancora i governi europei dovranno (o potranno) continuare a sostenere i redditi di chi non lavora più o la liquidità di imprese che sarebbero state sane, se non fossero rimaste senza ordini.
Questi non sono tempi normali. Sono tempi nei quali pensare secondo la normalità di ieri sarebbe, quello sì, abnorme: la realtà è che gran parte d’Europa, Italia inclusa, dipende e continuerà a dipendere per un tempo oggi impossibile da misurare dalla Banca centrale europea. Solo dalla fine di febbraio fino a fine luglio la Bce, tramite Banca d’Italia, ha comprato 95,7 miliardi di euro di debito pubblico italiano. In sostanza, l’istituzione che emette l’euro ha finanziato l’intero sforzo di spesa discrezionale del governo per reagire alla pandemia. Proprio in queste settimane però in seno e attorno alla Bce si è aperta una vera battaglia delle idee e dei dati per decidere – probabilmente entro il 10 dicembre prossimo – fino a quando l’attuale sostegno eccezionale possa andare avanti. Non è affatto scontato, ad oggi, che duri molto oltre giugno prossimo.
È anche per questo che al governo italiano non si chiede di stringere la cinghia adesso. Non deve risanare i conti. Ha il compito però di dare da subito la massima credibilità per il momento possibile al cammino che ha in mente fino al 2023, alla fine della legislatura. A questo la Nota di aggiornamento approvata ieri cerca di rispondere, mettendo in programma – a meno di ricadute gravi del Covid – un calo abbastanza rapido del debito dal 158% del prodotto di adesso al 151,5% del 2023. Già ma come?
L’intera traiettoria calante prevista per il debito si basa sull’aspettativa di una crescita reale e nominale (cioè con l’aggiunta dell’inflazione, in realtà per ora sottozero) che dovrebbe diventare fortissima non solo nel 2021 ma anche negli anni seguenti. Ecco le previsioni ufficiali di crescita «programmata», quella che si dovrebbe raggiungere grazie alle misure del governo: più 6% nel 2021, più 3,8% nel 2022, più 2,5% nel 2023. Ma è lo scenario più probabile?
È legittimo nutrire dei dubbi. Nel 2021 può esserci in effetti un qualche rimbalzo automatico in confronto al 2020 – quest’anno abbiamo attraversato interi mesi di paralisi – anche se la spinta aggiuntiva dal Recovery fund europeo sarà appena di qualche decimale di punto. Ma dopo il 2021 com’è possibile che l’Italia cresca in appena due anni quasi il doppio di quanto sia cresciuta negli ultimi venti? La risposta del governo è che tutto questo dovrebbe accadere grazie ad altre misure espansive, cioè facendo più deficit (nel 2022) e poi persino durante una prima stretta netta di bilancio nel 2023.
Eppure già solo due dettagli, fra i tanti, segnalano le possibili fragilità di un simile impianto. Nel 2022 la crescita «programmata» grazie alle politiche di spinta del governo è dello 0,8% superiore alla crescita «tendenziale» (cioè quella senza spinta del governo) e il deficit «programmato» è di 0,6% più del deficit «tendenziale». In sostanza uno 0,6% di deficit in più produrrebbe uno 0,8% di crescita in più: ogni euro di debito in più innescherebbe 1,33 euro supplementari di espansione dell’economia. Possibile? Chissà, evitiamo processi alle intenzioni. Ma nei nove anni a partire dal 1999 ci sono voluti 2,9 euro di debito totale – pubblico e privato – per produrre un solo euro di crescita; e nei sette anni dopo il 2013 ci sono voluti 2,2 euro di debito totale – pubblico e privato – per il solito euro di crescita.
Un effetto moltiplicatore così alto della spesa pubblica o del taglio delle tasse, come quello che prevede il governo nei prossimi tre anni, probabilmente non si è mai visto in Italia nemmeno durante il boom dei nostri padri e dei nostri nonni. Tra l’altro questo effetto soprannaturale dell’investimento pubblico sull’economia sembra essere ancora più pronunciato nel 2023: a fronte di un deficit più basso del tendenziale (-0,4%), con una stretta di bilancio, abbiamo una crescita più alta del tendenziale (di 0,7%).
Così tutta la strategia di riduzione del debito presuppone un’efficienza altissima della spesa pubblica, dunque dell’intera macchina dello Stato, che nell’esperienza storica italiana non si è mai vista. Non solo negli ultimi anni, ma nell’ultimo secolo e mezzo. Tra l’altro, non si vedono bene all’orizzonte quelle riforme rivoluzionarie che dovrebbero trasformare di colpo la vecchia macchina dello Stato in un bolide di Formula Uno. E se per caso tutte queste belle speranze non si dovessero concretizzare, dove finisce il debito? Possiamo permetterci di vederlo salire sopra questi livelli raggiunti solo nella Grande guerra? Dai numeri, si direbbe piuttosto che il governo abbia scelto per gli anni post Covid una linea di disavanzo supplementare permanente finanziata con impatti di crescita immaginari. Salvo non dirci che accadrebbe se questi impatti poi non dovessero verificarsi nella realtà.
Ps. Merita un pensiero anche ciò che accade sull’assegno unico per i figli. È una misura giusta. Ma è disegnata in modo tale che per i percettori si aggiunge di netto al reddito di cittadinanza, contribuendo potenzialmente a redditi di ben oltre mille euro al mese con i quali in molte regioni d’Italia si può vivere senza patemi. Questa somma dei sussidi rischia così di generare un ulteriore disincentivo al lavoro o un incentivo al lavoro solo in nero, per non perdere gli assegni. Andrebbe in senso opposto agli obiettivi del governo, che vuole combattere l’evasione e riattivare i percettori del reddito di cittadinanza. Davvero l’assegno unico alle famiglie non si poteva calibrare un po’ meglio?