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 2020  ottobre 05 Lunedì calendario

Il business dei videogame non va in crisi

Gran Bretagna: David è stato licenziato perché ha alzato la voce contro i suoi superiori. Era sull’orlo di una crisi, aveva pensieri suicidi, non aveva più una vita e neanche più la forza di immaginarsela. Durante la pandemia ha lavorato notte e giorno, con straordinari non pagati e il fiato sul collo. Le scadenze erano vicine ed era in gioco il suo lavoro. Alla fine, non ce l’ha fatta più. Di questa e di altre molte storie simili è costellato il mondo del settore videogame negli ultimi tempi. Dal Guardian a Bloomberg, l’attenzione è alta e il motivo è semplice: ad oggi, quello dei videogiochi è uno dei settori imprenditoriali più redditizi, con un mercato che entro la fine del 2020 potrebbe arrivare a valere 160 miliardi di dollari e che non conosce crisi. I videogames, infatti, oltre a crescere da dieci anni con regolarità, globalmente fatturano più di musica e film messi insieme. Tanto che Ikea, il gigante svedese dell’arredamento, ha iniziato a pensare a una linea di mobili a misura di giocatore.
L’universo dei videogame va però ben oltre le crudeli storie della cronaca (che approfondiremo nell’articolo accanto). Lo scopriamo a Leamington, una cittadina inglese che a fronte di 20mila abitanti ha sul suo territorio circa trenta software house (tra cui anche le multinazionali Ubisoft, Sega e Activision) e dipendenti che passeggiano indossandone le t-shirt con il logo ben in vista. Qui vive Giorgio Pomettini, 28 anni, programmatore di videogiochi dal 2013: “Sono partito quando hanno riaperto gli aeroporti – racconta – e durante il lockdown ho lavorato da remoto”. Prima, in Italia, ha collaborato a lungo con grandi aziende del settore, ma non solo. Per Eni ha sviluppato uno dei cosiddetti advert game, giochi con cui le aziende cercano di farsi pubblicità positiva: il giocatore doveva raccogliere più cozze possibili dalle piattaforme petrolifere in mare e vivere così una esperienza quasi naturalistica. Altre campagne simili, ben pagate, sono arrivate da Poste, Enel, Phillip Morris: tutte consulenze. L’Italia, infatti, ha un’industria piccola e basata su software house indipendenti che spesso associano ai videogames altri lavori legati all’informatica, ma come nel resto del mondo, anche qui si prova a spingere sui giochi èer il mobile, da cui arriva ormai la metà del fatturato del settore. “Si cerca di produrne tanti in poco tempo perché la soglia d’attenzione sugli smartphone è molto bassa – dice Giorgio – : sul solo negozio Apple ce ne sono un milione”. Ma, ovviamente, maggiore l’azienda, maggiore è la possibilità di realizzarne free to play, ovvero con guadagni sulla pubblicità o sull’acquisto di funzioni aggiuntive. “Un’azienda piccola non può permetterselo – spiega Giorgio – e spesso o rinuncia o tenta di proporre qualche gioco a pagamento. Anche se da qualche tempo Apple ha iniziato a spingere i giochi premium”. Ben diverso è invece il modello di business dei videogames destinati alla fruizione da “fisso”: un gioco di fascia internazionale può impiegare tra i 200 e i 300 professionisti per 2 o 3 anni di sviluppo. Questo significa che c’è bisogno di un buon capitale di partenza e di qualche anno di rosso. Oltre che di una squadra affiatata. “Al lavoro – spiega Giorgio, che ormai è la nostra guida – abbiamo una bacheca condivisa. Se c’è da ‘implementare una funzionalità e il personaggio deve volare’, il designer dice quanto, quanto in alto, se deve ricaricarsi. Io glielo faccio fare, il grafico lo adatta e così via”. Parliamo di giochi da Pc, quelli che Giorgio definisce più “duraturi”. “War of Warcraft per dire, è in auge dal 2004”. Al contrario, i videogiochi online sono legati alla comunità che li utilizza e sono i più costosi da sviluppare perché prevedono una infrastruttura capace di coordinare più utenti contemporaneamente e abilità altissime se solo si considera che uno sviluppatore deve fare in modo che le condizioni base di gioco siano le stesse per tutti, indipendentemente dalle condizioni della loro rete. In questo caso il modello di business si divide sempre in “pago una volta sola”, in abbonamento oppure gratis ma con possibilità di comprare accessori. Per esempio League of Legends è gratuito ma si può comprare un costume per il giocatore. Sembra bizzarro ma funziona: un gioco dove chi paga prende il fucile più potente favorirebbe chi ha più i soldi.
La vera sfida è però farsi conoscere fuori: recensioni, youtuber o gli stream (su Twich si può guardare a cosa giocano gli altri) o la stampa. “Se lanci un gioco e nessuno ne parla è come se non lo avessi fatto” dice Giorgio. King, uno dei più grandi produttori per il mobile, ha per esempio comprato spot durante il Superbowl.
Tommaso Bonanni è invece il Ceo di Caracal Games, una softwarehouse di Roma. Racconta che decine di volte al mese viene contattato da venture capitalist, grandi studi, investitori che gli fanno offerte per l’azienda. Pure le acquisizioni sono in crescita. “La notizia che recentemente ha scosso il settore è l’acquisizione da parte di Microsoft di uno studio enorme che ha fatto alcuni dei videogiochi più venduti (Bethesda, ndr) per 7,5 miliardi di dollari”. Lui, però, non cede. Se deve finanziare un prodotto per due anni, cerca un publisher che opera in questo campo e si accorda sulle percentuali. “In Italia abbiamo formazione tecnica di ottimo livello e scuole importanti” spiega. E poi che accade? “Si va all’estero, in software house di altissimo livello che offrono stipendi più alti”. E si perde un patrimonio di conoscenza. La Polonia, ad esempio, è cresciuta tantissimo e ha i migliori studi di sviluppo in Europa, con investimenti pubblici monstre nel settore (ma anche problemi ad attirare talenti a causa del basso costo della vita e, quindi, degli stipendi): quando il presidente polacco ha incontrato Obama nel 2011 gli ha portato in regalo un videogioco prodotto dalla principale softwerehouse del Paese.
Anche per questo la settimana scorsa, l’Accademia italiana videogiochi (Aiv) ha organizzato un evento di tre giorni con una impressionante partecipazione di ministri e personalità di spicco di governo e Parlamento. L’intento è spingere in questo settore, sia a livello di investimento pubblico che di pubblicità. “Siamo partiti dalla formazione perchè servono delle buone fondamenta – spiega Alessandro Salvador, business developer di Aiv e direttore Aiv Milano – ma servono anche agevolazioni fiscali”.
In Italia i giocatori sono 17 milioni, i fondi stanziati 4 milioni attraverso il First Playable Fund (nel 2018 in Gb sono stati stanziati 3 miliardi di sterline). L’indotto è grande, il tasso di occupazione pure: per realizzare un videogame occorrono artisti, matematici, sviluppatori, designer, narratori, scrittori, animatori, musicisti, figure di raccordo, marketing. “Dall’Accademia, l’80 per cento è occupato entro i 12 mesi dalla fine del terzo anno di corso, tra i programmatori si sale al 100 per cento, anche prima di concludere l’intero ciclo di studi”. Per sviluppare il famoso Gta 5, ad esempio, sono stati spesi circa 265milioni di dollari, altrettanti per il marketing. E sono state impiegate più di mille persone. Il prodotto ha superato gli incassi di qualsiasi film: 6 miliardi di dollari.
Ma come sono cambiati i videogames? “Si è passati dall’animazione di semplici pixel sulla tv a simulare il ping pong a veri e propri capolavori digitali” spiega Salvador. “Il videogioco si è evoluto secondo due aspetti: per tipologia e per acquisto. Prima c’erano i negozi e i giochi in scatola, poi con digitalizzazione e banda larga è cambiato tutto. Il peso dello scatolato oggi in Italia è di circa il 2 per cento”. Online, invece, il confine tra le diverse dimensioni del web diventa più labile: i giochi sembrano film, l’audio è in dolby theatre, nella modalità multi-giocatore e in streaming si può comunicare con persone da ogni parte del mondo. E per evitare che tutto si fermi, bisogna spingere sempre di più. “Il pubblico è sempre più esigente, vuole mondi sempre più complessi e tecnica sempre più evoluta” conclude Salvador. Una sfida nella sfida, con costi altissimi e sconosciuta ai più.