Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 04 Domenica calendario

I 100 anni di Vico Magistretti

Il 6 ottobre 1920 nasceva a Milano Ludovico Magistretti (1920-2006), autore di architetture di grande qualità e di una lunga serie di pezzi di design oggi parte delle collezioni di musei come il MoMA di New York e il Victoria & Albert di Londra. Il suo fu un destino in parte già segnato. Il bisavolo Gaetano Besia (1791-1871) era stato un noto architetto, così come il padre Pier Giulio (1891-1945), che progettò tra l’altro l’Arengario in piazza del Duomo. E fu proprio all’Arengario che Vico – come poi tutti lo chiameranno – cominciò la sua carriera all’alba del dopoguerra, allestendo la Mostra della Ricostruzione.
Siamo nel 1945. Il giovane Magistretti è appena tornato dalla Svizzera, dov’era rifugiato e dove aveva conosciuto Ernesto N. Rogers, architetto e intellettuale che diverrà suo maestro. Neanche il tempo di laurearsi e ha già uno studio, in via Conservatorio. È quello del padre, autore dell’intero edificio, morto lo stesso anno: tre stanze con vista sulla chiesa di Santa Maria della Passione e sul neoclassico Palazzo Archinto (poi Collegio delle Fanciulle), opera del bisavolo. Un ritratto di famiglia, cui Vico aggiungerà più tardi una sua creazione, pochi metri più in là.
L’idea di una tradizione famigliare, civica e professionale, con cui instaurare un dialogo in continuità (parola cara a Rogers), si mischia con l’aspirazione alla rottura ereditata dal razionalismo, con la città che sale e le trasformazioni sociali che suggeriscono inediti edifici e oggetti. In questo duplice sguardo – passato e futuro, tradizione e innovazione – si trova uno dei fondamenti dell’opera di Magistretti: una dualità – non un’ambiguità – tenuta insieme da una mente acuta e una mano capace di ricomporre tutto in forma straordinaria. Lo si vede in opere come la chiesa del quartiere QT8, dove la tonda semplicità non è solo «neorealista» ma già prelude all’astrazione della lampada Eclisse, premiata nel 1967 con il Compasso d’Oro; la Torre al Parco di fronte alla Triennale (un grattacielo, ma all’italiana); la casa-cinematografo in via San Gregorio (con finestre simili ai tagli di Lucio Fontana, ma anche ammiccamenti al vecchio Lazzaretto, proprio di fianco). Oppure l’edificio in piazza San Marco, in cui cita i colori della chiesa antistante (per scegliere il tono giusto, in realtà, comprò la giacca a un passante: era proprio la tinta che voleva) ma poi ci mette una scala mobile davanti, in anticipo sui futurismi di Renzo Piano al Beaubourg. «Essere moderno – diceva Vico – vuol dire fare l’anello, una mano avanti verso il futuro, l’altra indietro verso il passato». Stesso atteggiamento nel design; ad esempio nella sedia Carimate (1960), amata da Renato Guttuso e da Mary Quant, che riprende l’anonima seduta in legno «da trattoria» ma si colora di rosso acceso come una Ferrari.
Ecco un’altra dualità di Magistretti: «la mia vera passione è l’architettura. Il design, l’ho sempre detto, è una cosa che faccio con la mano sinistra. Però un po’ mento, se dico così: perché il design è l’unico modo di entrare in contatto con il prossimo». Come titolava «Panorama» nel 1969, Magistretti «cominciò a disegnare per l’arredamento quasi per gioco», e gli riuscì molto bene, poiché l’idea della produzione industriale, per il grande pubblico, era inculcata nella sua visione del mondo. La Selene (1969) mostra come fare una sedia resistente ed economica con un foglio di plastica di soli 3 mm; la Silver (1989) aggiorna la sedia Thonet 811 di Marcel Breuer, giocando ancora sulla memoria. Il letto Nathalie (1978) e il divano Maralunga (1973) rinnovano le rispettive tipologie grazie alla flessibilità delle parti; la lampada Atollo (1977) è un inno metafisico alla cultura classica; gli arredi trasformabili per Claudio Campeggi (purtroppo scomparso la scorsa estate) combinano ironia e competenza tecnica.
Altro dualismo: progettista d’élite o per le masse? Frequentatore di campi da golf (sembra con successo), sobriamente elegante con l’ironica concessione della calza rossa e parlata milanese con erre inconfondibile, Magistretti – grazie alla sua maestria nel disegnare interni e ville – divenne uno degli architetti di riferimento della borghesia imprenditoriale cittadina. Per questo, nel clima politico degli anni Sessanta il suo lavoro fu tacciato di «cercare giuste soluzioni per problemi sbagliati», svolgendo una «funzione celebrativa» di una ristretta e selezionata committenza. Una fotografia in realtà molto parziale: Vico lavorò senza sosta sul tema della «casa per tutti», dalla ricostruzione alla postmodernità, dal centro alla periferia, inseguendo economia e funzionalità.
Ancora tra due (apparenti) estremi: Magistretti araldo del minimalismo, dell’astrazione e della forma pura. Vero, ma non del tutto. Espressioniste, talvolta manieriste, sono alcune sue piante per ville che si sperdono nel paesaggio della Brianza. Ricci, rivoli, esplosioni geometriche e curve ispirate all’organicismo di Aalto, che ritroviamo a ben guardare in corrimani, lampade, braccioli e gambe di poltrone, finestre e camini, simili anche (sarà una suggestione) ad alcuni dettagli della facciata di Santa Maria della Passione.
Continuando sul filo della dialettica: il più milanese – forse dopo l’amico Caccia Dominioni – degli architetti, che in Italia progettò ben poco fuori dalla sua città (le eccezioni liguri e brianzole si spiegano facilmente), ebbe rapporti fantastici con l’estero. L’amore per l’Inghilterra è noto: la sedia Carimate divenne un’icona della Swinging London, e dal 1979 insegnò regolarmente al Royal College of Art, influenzando centinaia di designer tra cui Jasper Morrison e Konstantin Grcic. In Giappone costruì la Casa Tanimoto, in cui si mischiano (ancora) modernità e tradizione, oriente e occidente. L’amore per il Nord – condiviso con Maddalena De Padova – si vede nelle ossessive citazioni scandinave, come nel municipio di Cusano Milanino – un omaggio letterale ad Aalto e Arne Jacobsen – o negli arredi in legno curvato.
Dispiace non averlo potuto festeggiare a dovere, Vico, in questo amaro 2020 che prevedeva tra l’altro una mostra (finalmente) alla Triennale di Milano, dove egli fu di casa dagli esordi alla maturità. Tutto rimandato all’anno prossimo, ma intanto ci si può godere l’immenso archivio digitale creato dalla Fondazione Vico Magistretti, che con un lavoro encomiabile tiene vivo il piccolo studio milanese, da cui Magistretti – con il solo aiuto del fedelissimo geometra Montella – disegnava il futuro senza dimenticare il passato.