Il Sole 24 Ore, 4 ottobre 2020
1QQA40 L’insufficienza dei nudi dati secondo Fenoaltea
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«Gli economisti, americani e americanizzati, sono in buona parte ancora legati a un ingenuo positivismo ottocentesco tagliato fuori dalle principali correnti culturali contemporanee, sono una tribù sperduta nella giungla intellettuale» (pag. 10). È una critica senza appello quella di Stefano Fenoaltea (1943-2020), che ci ha lasciato poco dopo la pubblicazione di questo suo ultimo libro.
La biografia intellettuale di Fenoaltea gli dava pieno titolo a discutere con competenza le lacune delle discipline economiche (e di quelle storiche). Dopo un baccalaureato francese in filosofia, Fenoaltea ottenne un dottorato in economia a Harvard, dopo il quale insegnò per quasi trent’anni in varie università statunitensi, per poi concludere la vita accademica a Tor Vergata e al Collegio Carlo Alberto di Torino. Negli anni 70 aveva fatto parte di un gruppo di giovani studiosi, riunito da Alberto Caracciolo e poi attivo nella «Rivista di Storia Economica», creata da Luigi Einaudi, del quale raccolse l’eredità praticando in Italia una “nuova storia economica” teoricamente fondata, con forte inclinazione alla quantificazione, portata da Fenoaltea a un’estrema raffinatezza, che emerge evidente in questo libro. È in notevole misura grazie all’apporto di Fenoaltea che quel gruppo ha potuto contribuire a riscrivere la storia economica dell’Italia.
L’ultimo libro di Fenoaltea contiene una revisione delle stime dello stesso autore sulla produzione nazionale italiana e le sue componenti, nel cinquantennio post unitario. Grazie a questo e ai precedenti studi di Fenoaltea, sempre rivisti e sempre considerati provvisori, l’Italia possiede le migliori stime del prodotto interno lordo ottocentesco tra quelle esistenti per qualunque altro Paese.
I primi due capitoli sviluppano considerazioni di metodo che includono il giudizio severo, citato sopra, sullo stato della professione economica. Il nocciolo della sua critica, che si estende anche al contributo di taluni storici economici, si basa su riflessioni maturate nella lunga pratica di ricostruzione del passato, condotta rielaborando dati che furono necessariamente concepiti e raccolti per ragioni diverse da quelle che fondano la ricerca odierna. La stessa parola “dato” (ricevuto), sostiene Fenoaltea, è fuorviante: sia i “dati” storici sia quelli correnti vanno analizzati e compresi, uno per uno, nella loro origine, qualità, attendibilità. Il ricercatore deve capire perché, quando, dove e con quali tecniche furono prodotti. Vanno «valutati alla luce del loro più vasto contesto, di quanto sappiamo delle attività, istituzioni, tecnologie in qualche modo collegabili ai dati stessi», prodotti in circostanze tanto diverse (pag. 17). È un lavoro, una forma mentis, indispensabile e al tempo stesso appassionante per chi lo pratica, ma ignorato da troppi economisti, abituati a usare acriticamente “banche dati” o, nella migliore delle ipotesi, ad affidarlo alle mani inesperte di assistenti di ricerca. È proprio la fiducia acritica nel “dato”, comunque prodotto e manipolato, che fa vedere a Fenoaltea molti economisti come prigionieri di un paleo positivismo lontano dalla cultura, dalla filosofia, dall’epistemologia contemporanee. Sono accomunati in questa critica gli storici “cliometrici”, quando si mostrano più interessati alle tecniche di trattamento dei dati che alla loro qualità.
Fenoaltea, economista colto, autore di un eccellente testo di microeconomia, non limita il proprio messaggio metodologico alle tecniche artigianali di ricerca e validazione necessarie alla “ricostruzione” dei “dati”. Ha un messaggio anche per gli storici: senza la guida della teoria economica è impossibile condurre una ricerca sull’economia del passato. «Una buona storia economica, deve avere senso economico» così come, per esempio, una storia delle pestilenze deve avere senso microbiologico (pag. 11).
È indubbio che per Fenoaltea, profondo interprete della propria professione, quello dello storico economico sia un mestiere intellettualmente affascinante proprio per la sua complessità perché «per essere storia economica, essa deve basarsi su solida teoria, per essere storia economica deve fondarsi su una profonda comprensione del passato». Così, l’impegno di chi pratica questa difficile disciplina «non può essere quello di un fungibile “scienziato” (Fenoaltea pensa che l’economia non sarà mai una “scienza”) ma quello di un non fungibile artigiano» (pag. 12).
Fenoaltea ha, per economisti, storici puri e storici economici, un messaggio radicale, elaborato e testimoniato in mezzo secolo di ricerca. Nella sua purezza si presta alle obiezioni di chi, nella propria pratica artigiana, deve accomodare problemi pratici, tagliare qualche angolo, venire a qualche compromesso di metodo. Capita a molti. Fenoaltea ci aiuta almeno ad avere consapevolezza di quanto facciamo, se non proprio una cattiva coscienza.
C’è però un messaggio più generale in questo libro e nell’intera vita professionale di Stefano Fenoaltea, spesa quasi interamente in un unico, colossale, progetto di ricerca. È il richiamo rigoroso a una storia economica che sia elemento fondante non solo della ricerca storica, ma anche della teoria, dell’analisi quantitativa e della politica economica. Tutto il lavoro di Fenoaltea, si sia trattato di istituzioni (i diritti di proprietà medievali, la schiavitù), di infrastrutture (le ferrovie), di crescita industriale, di ciclo economico, di disuguaglianze territoriali, offre elementi per le analisi delle economie attuali, per le politiche economiche, per la stessa politica senza aggettivi quando deve misurarsi con gli assetti istituzionali.