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 2020  ottobre 04 Domenica calendario

Un libro-conversazione con Raffaele La Capria

«Siamo sempre così poco sicuri della nostra interiorità. Io sono arrivato a volte a dubitare di averne una, mi creda. Così passiamo il tempo a tentare in qualsiasi modo di liberarla». Questo frammento di dialogo compare a pagina 100 di un nuovo libro di cui Raffaele La Capria è autore e insieme protagonista, protagonista proprio nel senso che è un personaggio del libro. In molti testi dell’autore napoletano c’è il suo io in scena, una prima persona narrativa e riflessiva. Ma qui la situazione è diversa. La vita salvata esce in libreria in occasione del novantottesimo compleanno dello scrittore: la maggior parte di questo quasi secolo l’ha passata a scrivere, quindi, pezzo incarnato della nostra storia letteraria, è comprensibile che sia un magnete per gli scrittori di oggi. Lo hanno intervistato, tra gli altri, autori come Emanuele Trevi, Alessandro Piperno, Silvio Perrella e Paolo Di Paolo, alla ricerca non tanto di una testimonianza ma di quella quintessenza letteraria, di quella pietra filosofale del narrare che chi viene dopo spera sempre di catturare in chi è venuto prima. E molti altri scrittori hanno scritto nel tempo saggi e prefazioni al suo celebre Ferito a morte, da Magris a Starnone, cui si aggiungerà l’anno prossimo Sandro Veronesi nell’edizione Oscar per il sessantesimo compleanno del romanzo.
Ma il nuovo libro è diverso: stavolta l’io di La Capria è un personaggio visto da fuori, da un altro occhio, con quelle particolarità – sorrisi, sguardi stupefatti o ironici, sospiri, pause improvvise – che un io autobiografico non ha. In questo modo lo ritrae la sua interlocutrice Giovanna Stanzione, che non è soltanto una intervistatrice ma un’altra figura del libro. Così che la loro conversazione si presenta come una pièce teatrale a due personaggi: c’è la scena, che è la casa romana di Raffaele La Capria, al posto delle quinte i libri e per sfondo la terrazza che si apre su Roma. Entra ed esce dal palcoscenico il gatto Nemo, che ogni tanto salta sulle ginocchia del padrone come per riportare un po’ d’ordine, il rigoroso ordine animale, nelle tante divagazioni che piegano il dialogo in situazioni impreviste, portandolo lontano, in altri luoghi, in altri tempi.
I due in scena sono personaggi precisi: il vecchio scrittore, la giovane aspirante scrittrice, la quale ha cominciato il suo primo romanzo, poi però si è interrotta e ha smesso di scrivere. Anche lo scrittore, che di romanzi o romanzi-saggi o racconti autobiografici ne ha scritti tanti, ha smesso di scrivere, forse per la fatica di quel secolo che porta sulle spalle, forse, dice, perché non vede più il romanzesco intorno a sé. In questa impasse, in questa astinenza dalla scrittura l’argomento della conversazione non può che essere la letteratura. Ma per entrambi il tema vero è un altro: la letteratura c’entra con la vita? e in che modo? C’entra con la vita che si scrive ma anche con quella che si vive? La modifica?
Su questo il vecchio scrittore non ha alcun dubbio: «Mi sono accorto che esistevo a diciotto anni, quando ho letto Gli indifferenti di Moravia. Prima mi sentivo fuori posto dentro me stesso e nel mondo attorno. Quel libro mi diede come una casa e nel protagonista Michele io riconobbi me e molti dei miei amici, figli di una borghesia che continuava a far finta di niente, mentre fuori il niente si era già preso il tutto e si era insinuato dentro di loro». In altri termini, la letteratura fa irruzione nella sua adolescenza addormentata sotto il fascismo e poi, di lettura in lettura, in una giovinezza sotto le bombe della guerra, in cui il futuro si profila come un sogno indecifrabile, e gli cambia la vita. Di romanzo in romanzo, di scrittore in scrittore, da Montaigne a Camus, da San Paolo a Dostoevskij o Proust o Cechov, tra molti altri libri di saggi o poesie, da Dante a Montale: sembra essere questa la vita salvata cui si intitola il libro. Cioè la vita si salva se qualcosa di ieri arriva a domani: è l’altro tema su cui La Capria insiste, con quella ispirazione civile che emerge in tanti suoi libri sulla nostra patria bella e perduta per incuria e ignoranza. «Quando viene a mancare l’unità di storia e identità, il nesso tra presente e passato, allora un popolo si ammala, perde l’anima, non sa più chi è».
Il vecchio scrittore teme l’inquinamento che colpisce le parole e, contro ogni scorciatoia di facile realismo, vuole spiegare all’aspirante scrittrice che non si abita un paese: si abita una lingua, come diceva l’esule Cioran. Anche La Capria in questo dialogo a volte molto serio, a volte scherzoso – o malinconico con tutti quei flash back e i fantasmi dell’amore perduto, Ilaria, e degli amici che non ci sono più – ha ogni tanto il tono dell’esule. Forse semplicemente esule da un gesto, quello sì salvifico: «Lo sa cosa mi manca di più? Il gesto, l’atto fisico della scrittura». È uno dei pochissimi accenni al peso degli anni. Il suo de senectute è invece concentrato e sorridente. Racconta a un certo punto che lui è uno che pensa incessantemente, l’ha sempre fatto, addormentarsi pensando e risvegliarsi sul filo dei pensieri. «Cosa è cambiato da allora?» gli chiede la giovane amica. «Niente», risponde. «Lo faccio tuttora. Solo che i miei pensieri sono diventati lievi, senza peso. E la cosa non mi dispiace affatto».