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 2020  ottobre 04 Domenica calendario

Togliatti, la capitale della Zhigulì

Come prima cosa, la città non si chiama Togliattigrad, come si leggeva anche in certi atlanti di una volta, ma Togliatti. Palmiro Togliatti muore a Jalta il 21 agosto 1964. Con tipico zelo socialista, qualcuno a Mosca decide subito di dare il suo nome a una città sovietica, e una settimana dopo gli abitanti di Stavropol sul Volga, mille chilometri a Sud-Est della capitale, si svegliano abitanti di «Togliatti». Dopo il 1989 alcuni liberi pensatori hanno cominciato a farsi delle domande, e nel 1996 sono anche riusciti a organizzare un referendum che mirava a restituire alla città il suo nome storico. Ma più del 70% degli abitanti ha votato contro, e Togliatti è rimasta Togliatti. Casermoni, vialoni, distanze siderali tra l’edificio grigio piombo A e l’edificio grigio piombo B; poi un bosco proporzionato alla città, e oltre il bosco il placido fiume Volga, e oltre il Volga le colline Zhigulì.
Cinquant’anni fa dalle catene di montaggio di Togliatti uscì la prima automobile Zhigulì (sì, come le colline): 1970, centenario della nascita di Lenin, i sovietici tenevano a questi simboli. A costruire le catene di montaggio e la fabbrica, grande due volte Mirafiori, era stata la Fiat. L’industria automobilistica sovietica era in uno stato miserevole: pochissime auto private (nel 1965 ce n’era una ogni 238 abitanti, più o meno come nell’Italia del 1929; negli Stati Uniti ce n’era una ogni 2,7 abitanti), un sistema stradale premoderno, qualche marchio d’età staliniana e post-staliniana rimasto nella memoria degli appassionati, come Moskvich e Zaporozhets per il popolo e Volga per l’élite, ma nel complesso una produzione che non superava le 250mila vetture l’anno. Bisognava motorizzare l’Unione Sovietica, e la Fiat aveva antiche relazioni con quel Paese, dato che già negli anni Trenta aveva costruito a Mosca uno stabilimento per la produzione di cuscinetti a sfera, e suoi uomini ben introdotti tra gli apparatchik (cfr. Pietro Savoretti, Quel giorno al Cremlino: l’epopea di un uomo che ha vissuto facendo ciò in cui credeva. Ed è un uomo felice, Aosta 2011). Fu l’ultima avventura di Vittorio Valletta, che morì un anno dopo aver firmato il contratto con Kossyghin; e fu anche una delle ultime grandi imprese industriali italiane, prima del crepuscolo degli anni Settanta e del successivo sfacelo: molti soldi spesi e guadagnati, per la Fiat e per le aziende dell’indotto, molta esperienza, e soprattutto molte vite cambiate: perché centinaia di operai e tecnici torinesi passarono il loro semestre a Togliatti (qualcuno ci trovò moglie) e altrettanti lavoratori sovietici soggiornarono a Torino sullo scorcio degli anni Sessanta per stage sulla produzione.
Adesso questi veterani hanno passato gli ottant’anni. Ne incontriamo una dozzina, tutti gentilissimi, nella scuola statale numero 23 «Palmiro Togliatti», precisamente nella biblioteca-museo a lui dedicata, una bella sala ampia piena di cimeli togliattiani: un busto in gesso, foto di Nilde Iotti e della figlia adottiva Marisa in visita alla scuola durante il viaggio di nozze di Marisa, altre foto in bianco e nero di varie autorità sovietiche e italiane, le pizze di un film su Togliatti che annualmente si proietta a beneficio dei nuovi scolari, bandierine, gagliardetti, poesie. Sulla parete in fondo, un Togliatti anziano saluta col pugno chiuso, con alle spalle un drappo rosso e lo stendardo dell’«Unità». È uno straniante ritorno agli anni Cinquanta, ma quando domandiamo alle professoresse della scuola come ha fatto, tutto questo apparato, a reggere all’assalto del tempo, come mai la scuola non ha cambiato nome dopo il 1989, liquidando i cimeli, le professoresse ci spiegano che onorando Togliatti loro non onorano il capo del Partito Comunista Italiano ma l’antifascista. Come De Gaulle. Come Stalin.
Nessuno dei veterani è nato a Togliatti. «Perché Togliatti, cioè Stavropol, quasi non esisteva», ci spiega Eugenia Yukhnovich, che alla fine degli anni Sessanta, appena uscita dalla facoltà di Lingue, lavorò come interprete per i dirigenti Fiat. «Siamo arrivati tutti da altre città, dalla provincia. Non tanto per lo stipendio, che non è che fosse molto più alto che altrove, ma per la voglia di partecipare a un’impresa di cui si parlava in tutto il Paese, la costruzione di una fabbrica dentro una città in costruzione. C’era tutta una mistica, fomentata dal Komsomol. Dicevano: i nostri padri hanno costruito Magnitogorsk [la più grande acciaieria sovietica, costruita all’inizio degli anni Trenta sul fiume Ural, ndr], noi costruiremo Togliatti! Ma insomma siamo partiti poco più che adolescenti, siamo arrivati qui e ci siamo trovati davanti una specie di villaggio del vecchio West americano». A metà degli anni Sessanta Togliatti contava infatti poche migliaia di abitanti, dieci anni dopo ne conterà più di mezzo milione. Ai tecnici che accettavano di trasferirsi il governo dava un terreno gratis per farsi la casa. Era quello, che attirava: case nuove, spaziose, in cui si poteva vivere da soli, senza coinquilini molesti. Uno dei veterani, Eroe del Lavoro Socialista, il petto medagliatissimo, la costruì con le sue mani in una zona allora quasi deserta che adesso si trova a due passi dal centro commerciale più grande della città, il Rus’ na Volge.
Mezzo secolo più tardi, resta in tutti l’orgoglio di aver partecipato a quella cosa in fondo rarissima, per uomini e donne vissuti nel secondo Novecento, che è una fondazione: «Quanto lavoravate?». «Quanto serviva». «E quanto serviva?». «Almeno otto, dieci ore al giorno». «E dopo il lavoro cosa facevate?». «Altro lavoro». «Come altro lavoro?». «Smontavamo dalla fabbrica e andavamo a dare una mano ai muratori che costruivano le case, i negozi, gli asili, la biblioteca». «E dopo il secondo lavoro?». «Costruivamo casa nostra. O se era bel tempo andavamo sul Volga a piantare gli alberi. Perché tutto era da fare, e abbiamo fatto tutto».
Alexander Zibarev, già vicepresidente dell’AutoVAZ, è stato a lungo a Torino, e per esempio ricorda di aver visto dalla finestra del suo ufficio in Piazza San Carlo un comizio di Almirante: sulle prime aveva pensato che fosse una provocazione anti-sovietica, poi gli avevano detto che quello era il palco di tutti i comizianti, e infatti tempo dopo, dalla finestra, aveva ascoltato uno del Pci: «Longo, o forse era Pajetta». Mentre ci congediamo mi ricordo di essere anch’io torinese e gli chiedo esattamente dove l’avessero sistemato, ed esattamente quando, e la risposta – appartamento in Via Caprera, anno 1971 – mette una nota melodrammatica nella nostra sceneggiatura, perché nel 1971 in Via Caprera sono nato io, cosi gli ultimi intensissimi minuti del nostro incontro li passiamo ad elencare i landmark del quartiere: Rosticceria Santa Rita, brutta ma bella chiesa neoromanica di Santa Rita, la Standa, Piazza d’Armi, lo Stadio Comunale oggi Olimpico, il grande magazzino Bônpat, quella salumeria in Via Barletta che faceva anche piatti da asporto, in anni in cui la cosa suonava quasi esotica, americana...
A un certo punto è chiaro non solo a me ma a tutti i presenti che Zibarev ripete assentendo i nomi che gli cito più che altro per corrispondere al mio entusiasmo, e impossibile che dopo cinquant’anni si ricordi del nostro salumiere, ma tutti gli siamo grati per questa sua dedizione, questa sua disponibilità a non uscire dalla parte: l’idea che possa aver incrociato mia madre che portava a spasso me infante strappa anche agli altri veterani un oooh d’intenerito stupore. Ce ne andiamo commossi, vogliamo fare quattro passi da soli per vedere meglio questa città costruita artigianalmente, e dopo sole cinque ore di pura Vastità post-sovietica arriviamo sfranti al nostro albergo.