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 2020  ottobre 04 Domenica calendario

QQAN40 Le letterine caste e sottili di Lucrezia Borgia

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Altro che santarellina. Una santa vera e propria, con lo sguardo devoto sì, ma fiero e autorevole. Che la giovanissima Lucrezia Borgia vesta i panni di Santa Caterina, nei suntuosi e misteriosi affreschi del Pinturicchio nell’Appartamento Borgia al Vaticano, è ipotesi antica e tenace.
Quando vengono eseguite le pitture, tra il 1492 e il 1494, lei è poco più che una bambina. Eppure è passata per due promesse di matrimonio andate a monte. Il 12 giugno 1493 è stata ufficialmente congiunta a Giovanni Sforza. Cosa di meglio che “santificarla”, per aumentare il suo onore e prestigio? Del resto, tutta la macchina iconografica escogitata per Alessandro VI Borgia, sommo pontefice e padre orgoglioso della bellissima Lucrezia, parla la lingua della nobilitazione e dell’esaltazione. Lunghissimi boccoli dorati, naso elegante, mento modellato, Lucrezia ha già tutti i vezzi di una irresistibile femme fatale. Passi per la figlia illegittima addobbata a santa. Secondo Vasari, su richiesta del papa, Pinturicchio «ritrasse sopra la porta d’una camera la signora Giulia Farnese nel volto d’una Nostra Donna, e nel medesimo quadro la testa di esso papa Alessandro che l’adora». C’è l’intera saga dei Borgia, in questa Madonna con le fattezze della Farnese, amante idolatrata da Alessandro VI, assunta per l’occasione in cielo, carnalmente desiderata e misticamente adorata.
Pettegolezzi, insinuazioni, profanazioni, il tutto servito con il fulgore di un’arte splendida. Se il Rinascimento italiano ha un’anima pop, i Borgia ne sono gli interpreti più virtuosi e genuini. Virtuosi si fa per dire, vista la fama di violenze, di soprusi e di lascivia che da sempre li accompagna. E non si pensi che un simile polverone mediatico sia un prodotto tardivo, frutto solo della pruderie ottocentesca e delle demonizzazioni a posteriori. Una Lucrezia Borgia debosciata e avvelenatrice non l’ha inventata Victor Hugo, con il suo omonimo drammone, trasposto in musica da Gaetano Donizetti, su libretto di Felice Romani. Basti la frase sprezzante dell’umanista perugino Francesco Maturanzio, cronachista ben informato e senza peli sulla lingua, secondo cui la figliola del papa era «la maggior puttana che fusse in Roma» – un giudizio orrendamente sessista ma non certo isolato nel vorticoso gossip nell’ultimo scorcio del Quattrocento.
Non si capisce Lucrezia Borgia, né l’epoca sua, se non si accetta di bagnarsi in questo mare di dicerie, di colpi di scena, di soprusi e di continui cambi di tono e d’atteggiamento. Per le cure filologiche e appassionate di Diane Ghilardo escono ora oltre settecento lettere di Lucrezia Borgia. Un evento importante, vista la mole e l’interesse dell’epistolario, per larga parte inedito, che dà modo di tornare su di un personaggio tanto iconico quanto sfuggente. Se si scorrono le pagine del nuovissimo volume delle lettere, s’incontra una Lucrezia gentile, assennata, tutta casa e chiesa, anzi corte e monasteri. Madre tenera, sposa premurosa, patrona devota della religione. Il capriccio del destino ci ha lasciato quasi solo le lettere della seconda parte della vita di questa eroina dai molti volti. È il periodo ferrarese, quando Lucrezia, andata in sposa ad Alfonso I d’Este, s’inserisce con molto tatto e savoir-faire nell’etichetta della sussiegosa corte estense. Nonostante la nomea poco illibata che pesa sulle sue spalle, uscita com’è da due precedenti, chiacchieratissimi matrimoni (nel 1498 aveva sposato Alfonso d’Aragona, poi fatto uccidere da suo fratello Cesare Borgia), e in generale sospetto d’amori illegittimi, Lucrezia manovra con perizia tra scogli quotidiani. S’ingrazia l’altezzosa e vulcanica cognata, Isabella d’Este, s’occupa del governo durante le assenze del marito, s’adopera per mettere al mondo l’agognato erede maschio, che arriva finalmente nel 1508. Di questo travaglio, le lettere riescono a dar conto con gaiezza, secondo quell’indole sorridente che tutti le riconoscevano. Fa quasi tenerezza leggere i suoi bigliettini a Isabella, che raccontano di cortesie e scambi di doni. Non aspettatevi un luccicare di gioielli o broccati. Si tratta solitamente di pesci, di frutta, di formaggi, che fanno la spola tra le corti di Mantova e di Ferrara, a memento di una nobiltà ancora ben piantata sulle proprie radici agrarie.
Se fosse tutto qui, potremmo pensare che Lucrezia sia davvero diventata, da santa scandalosa, una duchessa brava e buona. Lo è di sicuro, ammodo, non fosse per qualche guizzo che fiammeggia qua e là. Come nello scambio di cortigianerie, sottintesi, elogi platonici e allusioni birichine che movimenta la sua corrispondenza con Pietro Bembo. Gran elegantone della letteratura lui, ancora charmante lei, capace d’intrigare l’esigente intellettuale con deliziose letterine in castigliano. Lord Byron, che di eleganza se ne intendeva, le definì «le più leggiadre lettere d’amore al mondo», e arrivò al punto di sgraffignare un lunghissimo capello dorato di Lucrezia dalla ciocca che accompagnava il fascicolo delle missive alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Capelli di un biondo quasi soprannaturale, come peraltro quelli della Lucrezia/Santa Caterina dell’Appartamento Borgia.
Qual è la “vera” Borgia? Smettiamo di chiedercelo e accettiamo che, di tanto in tanto, la verità ci sfugga. Il gioco della seduzione non è forse fatto di non detto e di travisamenti? Scandalosa, vitale, trasgressiva, assennata, rassegnata, credente, empia, fedele, volitiva. Se volete incontrare una donna del Rinascimento, chiedete di Lucrezia.