Avvenire, 4 ottobre 2020
La schiavitù degli uighuri dietro il lusso della moda
Dietro il giro d’affari della moda e dell’abbigliamento si nascondono gravissime violazioni dei diritti umani. In Cina viene utilizzata in modo massiccio per la produzione tessile la manodopera forzata dei reclusi nei campi di detenzione della Regione Autonoma Uighura dello Xinjiang (conosciuta agli uiguri come il Turkestan Orientale). Qui sono costretti tra 1 e 1,8 milioni di uighuri e turco–musulmani. A conclusione della settimana della Moda a Milano, sui muri di negozi dell’abbigliamento griffato sono apparsi manifesti di denuncia, ispirati a note pubblicità di moda, opera dell’artista uighuro Yettesu. La Campagna Abiti Puliti denuncia che un quinto del cotone prodotto nel mondo, di cui si servono i marchi dell’abbigliamento occidentale, è prodotto a costi bassissimi proprio dal lavoro forzato degli uighuri. Una pratica denunciata dal Congresso degli Stati Uniti. Abiti Puliti, con più di 200 organizzazioni, ha lanciato la campagna End Uyghur Forced Labour (Stop al lavoro forzato degli uighuri), chiedendo ai marchi e ai loro distributori di porre fine alla complicità in questo sfruttamento, interrompendo i rapporti con le fabbriche tessili dello Xinjiang entro 12 mesi.
La reclusione di massa di uighuri e turco musulmani in campi di detenzione e lavoro è probabilmente il più grande internamento di una minoranza etnica e religiosa dalla II Guerra Mondiale. «Le atrocità nella Regione Uigura (torture, separazioni forzate delle famiglie, sterilizzazione obbligatoria delle donne uighure) sono riconosciute – afferma Abiti Puliti – come crimini contro l’umanità». Proprio nei giorni scorsi la Camera Usa ha approvato The Uyghur Forced Labour Prevention Act (H. R. 6210), che stabilisce la presunzione legale che qualsiasi prodotto della Regione Uigura sia stato confezionato con lavoro forzato. Dovranno essere le imprese ad avere l’onere di dimostrare il contrario, altrimenti l’importazione sarà illegale. «L’Ue ha la responsabilità – sostiene la Campagna – di attuare lo stesso livello di trasparenza, controllo e diligenza». «I brand stanno sostenendo un sistema di repressione. È ora che i consumatori facciano sentire la propria voce. Ci aspettiamo dai marchi italiani coinvolti una immediata presa di posizione», dichiara Deborah Lucchetti, portavoce della Campagna Abiti Puliti.