il Fatto Quotidiano, 4 ottobre 2020
Ritrovata la giacca del lager di Primo Levi
La sua giacca del lager nazista di Auschwitz, quella con il numero di matricola, il “Nummer 174 517”, rimase in Ungheria. Non fu una dimenticanza, bensì la fame a farla restare lassù. Durante il lungo viaggio di ritorno in Italia, nel 1945, attraverso la Polonia, la Russia Bianca, l’Ucraina, la Romania, l’Ungheria e l’Austria, come avrebbe raccontato in La tregua, Primo Levi (Torino, 1919-1987) l’aveva ceduta per un poco di cibo. Il treno, scrisse, fermò “a Szòb, ed era giorno di mercato. Scendemmo tutti. (…) Io non avevo più nulla: ma ero affamato e barattai la giacca di Auschwitz, che avevo gelosamente conservata fino allora, contro un nobile impasto di formaggio fermentato e cipolle, il cui aroma acuto mi aveva avvinto”.
Quando giunse a Torino, però, nell’ottobre del ’45, tra le sue povere cose Levi aveva con sé un altro indumento del lager, un’altra giacca da deportato. Non era a “zebra” come quelle tristemente consuete nei campi di sterminio, ma grigia. Sulla schiena c’erano una croce colore del mattone e una toppa a forma di rettangolo, con strisce azzurre e biancastre. Queste giacche vennero fabbricate quando, nel ’44, la stoffa delle vecchie divise dei prigionieri di Hitler cominciò a scarseggiare. L’indumento non era quello di Levi ad Auschwitz. A chi era appartenuto, allora? Quale vittima dell’Olocausto l’aveva indossato, e dove? A un compagno, un amico, di Levi, forse? Anche adesso, nei giorni in cui la giacca del lager portata in Italia è rispuntata dopo anni in un baule depositato nella sede della sezione torinese dell’Aned (l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti), quelle domande non hanno risposte. La sola certezza è che l’autore di Se questo è un uomo la diede a Ferruccio Maruffi (1924-2015), partigiano e deportato a Mauthausen, autore di numerosi libri e a lungo animatore infaticabile e tra i fondatori nel ’46 dell’Aned di Torino, oltre che promotore di molti viaggi della Memoria negli ex lager d’Italia (da Fossoli a Bolzano), della Germania, della Francia, dell’Austria, della Polonia. Partigiano garibaldino nelle Valli di Lanzo, assieme al padre Giuseppe, trucidato dai nazisti nel dicembre del ’44, Maruffi fu catturato e deportato in Austria, prima a Gusen I, Schwechat, Floridsdorf, Gusen II, e infine al Revier di Mauthausen, dove fu liberato. Era perciò l’uomo giusto per ricevere da Levi quel frammento di tela della memoria.
Esposta per la prima volta in una mostra a Kyoto, in Giappone, diverso tempo fa, e quindi in una a Torino, la casacca di Levi finì in seguito nel dimenticatoio, e non se n’è più saputo niente fino a pochi giorni fa. Era come scomparsa in uno dei bauli in cui sono stati forzosamente stipati libri, documenti e cimeli dell’Aned subalpino, che, con il passare degli anni e la minore attenzione da parte degli enti pubblici locali finanziatori, ha dovuto traslocare da un posto all’altro. E così si è trasferita da una sede di una certa ampiezza in un piccolo locale ospitato nel Polo museale del Novecento, in uno degli antichi Quartieri Militari settecenteschi della città. La più che modesta dimensione della sede attuale di chi custodisce quella Memoria, la Memoria dell’orrore nazista, aveva costretto i responsabili dell’associazione – guidata da Susanna Maruffi, figlia di Ferruccio – a collocare una parte cospicua del patrimonio archivistico presso l’Istituto Storico della Resistenza del Piemonte. Quest’ultimo, tuttavia, avendo bisogno di spazio, ha restituito gli scatoloni all’Aned. Ed è a questo punto, in questo ennesimo travagliato viaggio, che la giacca di Primo Levi, peraltro sempre chiusa in una cassa, in queste settimane è stata ritrovata.
All’Aned non sanno se Levi avesse rivelato a Maruffi l’identità dell’uomo o della donna che aveva portato quella giacca, e non è noto nemmeno se lo stesso narratore lo sapesse. Avrebbe potuto essere, magari, uno di quegli indumenti presi dai sopravvissuti, dopo la liberazione sovietica di Auschwitz, al lager di Buna? “Allora – narra ne La tregua – mi ritagliai un paio di pedule da una coperta, arraffai quante più giacche e calzoni di tela potei trovare in giro”. Oppure la giacca appartenne davvero a un amico, morto come altri milioni di deportati ad Auschwitz o in qualche altro campo di sterminio? Chissà.
Primo Levi, in ogni caso, volle che fosse custodita da un amico e da un compagno di prigionia, Maruffi, che, come lui, era riuscito a salvarsi dallo sterminio e a ritornare per raccontare che cosa erano stati il nazismo e l’Olocausto. Quella stoffa, quel semplice pezzo di stoffa che simboleggia la libertà e l’oppressione, I sommersi e i salvati, dovrebbe essere vista da tutti, e l’Aned vorrebbe che fosse così. Occorre però mettere l’Aned nelle condizioni di poterlo fare: quell’Aned di Levi e di Maruffi, che tenacemente si ostina a preservare la Memoria in un mondo sempre più immemore.