La Stampa, 4 ottobre 2020
I danni del maltempo sono colpa dell’uomo. Ecco i numeri
Colate di fango, frane, smottamenti, alluvioni, ma anche acqua alta a Venezia e mareggiate sulla Liguria sembrano essere diventate ormai la regola, mentre i cittadini e gli amministratori locali non sembrano fare altro che prendersela con la natura o con il destino.
Invece dovrebbero prendersela con loro stessi e con il non aver pianificato correttamente sul territorio, aver consentito di costruire troppo spesso in luoghi pericolosi, aver sanato gli abusivismi e essersi affidati alle grandi opere, che possono anche funzionare, ma che certamente non sono una risposta armonica e sostenibile. Quando piove più del consueto come oggi, perché ormai il clima è cambiato, è comunque meglio guardare a terra, non in cielo, perché il problema è che quelle quantità enormi di pioggia cadono su un territorio devastato, abbandonato, abusato e divorato da costruzioni e infrastrutture di ogni tipo e genere. E che il mare si abbatte su costruzioni che hanno sostituito gli scogli.
Oltre a essere sistematicamente interessata dalle alluvioni, l’Italia è il paese che possiede il record europeo delle frane, 620.000 su circa 750.000. Perché non è anche la nazione all’avanguardia nella lotta al rischio idrogeologico? Il primo problema è che sul nostro territorio i fenomeni naturali diventano catastrofici solo per colpa dei sapiens, funestati come siamo dal più alto consumo di suolo del continente: oltre un metro quadrato perduto sotto asfalto e cemento ogni secondo che passa. Questa è la vera emergenza ambientale italiana, la bulimia costruttiva.
Un metro quadrato al secondo (ma in passato siamo arrivati fino a otto) è la spaventosa quantità di territorio vergine che viene ricoperta (o incendiata) e perduta per sempre. Se questa spirale non verrà interrotta, nei prossimi venti anni quasi 660.000 ettari saranno perduti (come a dire un quadrato di 80 km di lato, una superficie ampia poco meno della regione Friuli Venezia Giulia). Il territorio ricoperto dal cemento e dall’asfalto, in Italia, dal secondo dopoguerra è quadruplicato ed è oggi valutabile intorno al 7,5% della superficie nazionale, contribuendo a rendere più precario l’equilibrio idrogeologico, dissipando le nostre risorse naturali e amplificando i fenomeni estremi causati dai cambiamenti climatici. Se frane e alluvioni da noi fanno così tanti danni e vittime, dipende soprattutto dal consumo di suolo.
In Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2018, si sono riscontrate addirittura 17.000 gravi frane. Praticamente in tutta Italia, e non solo frane, ma anche alluvioni (oltre 5.000 le gravi, sempre dal 1918), spesso intimamente connesse agli smottamenti. L’Ispra certifica che sono oltre sette milioni gli italiani che vivono in zone a rischio di frana e alluvione e quasi il 90% i comuni coinvolti (7145 per la precisione). Come a dire, in pratica, che sotto quasi tutti i campanili d’Italia si muove una frana o si prepara un’alluvione. Addirittura sette regioni italiane hanno il 100% delle aree comunali a rischio di dissesto idrogeologico (Valle d’Aosta, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Molise e Lucania), mentre le altre arrivano tranquillamente al 90%. Centinaia di migliaia di persone lavorano in aree a rischio e quasi il 20% del patrimonio architettonico, monumentale e archeologico si trova in quelle aree pericolose.
La questione è sempre la stessa: se si toglie spazio al fiume, il fiume prima o poi se lo riprende, a prescindere dalla presenza dell’uomo. E se nello stesso luogo ci sono le case e l’acqua, nel luogo sbagliato si trovano le case, non l’acqua. Da sempre i fiumi si trovano da soli il percorso da seguire, se rimanere ruscelli in perenne escavazione o serpeggiare tranquilli in grandi meandri, forse non possono scegliere dove nascere, ma certo scelgono dove e come sfociare. Si è costruito troppo, male e dove non si sarebbe dovuto, si è dimenticato l’insegnamento della natura, si sono occupate le golene e tutte le piane naturali dove i corsi d’acqua debbono esser lasciati liberi di esondare: davvero c’è da meravigliarsi se ci sono sempre danni e decine di vittime? I fiumi sono cambiati. E anche le città: prima noi uomini eravamo di meno e i centri abitati più piccoli e limitati alle zone sempre sicure. Ma cosa dovrebbe fare un fiume cui è stato sottratto il suo corso, se non riprenderselo nel momento della piena?
E le cose peggiorano quando l’uomo decide di proteggere i suoi insediamenti con la costruzione di argini e con la cementificazione degli alvei (in genere dopo aver abbattuto boschi per far spazio agli insediamenti stessi). L’acqua del fiume acquista così maggiore velocità e erode considerevolmente il suo letto, permettendo sì di evitare le «normali» ondate di piena, ma preparando il campo a disastri di grandi proporzioni nei casi eccezionali. Quelli di oggi, diventati ormai normali.
Sul lungo termine è ora di ripensare il rapporto fra cittadino e natura: bisognerà imporre limitate opere di intervento naturalistico dove serve, ma si dovrà delocalizzare (dolcemente) parte della popolazione a rischio idrogeologico, e pensare a una nuova pianificazione che sia più equilibrata e armonica. Perché non si può più morire nel fango all’inizio del terzo millennio, tanto meno in un paese che ha ambizioni da potenza mondiale.