La Stampa, 4 ottobre 2020
Intervista alla chef Ruth Rogers
«Desideravo soprattutto che chi entra si sentisse come a casa. E in un certo senso questo ristorante è una casa per i nostri avventori. Le persone che contano davvero per me non sono quelle famose. Voglio servire a tutti il miglior pasto possibile». Ruth Rogers ha aperto il suo celebre ristorante londinese, The River Café, nel 1987 insieme con la sua socia Rose Gray, morta di cancro nel 2010. Ci incontriamo in una mattina di sole nella splendida casa che Ruth e suo marito, l’architetto italo-britannico Richard Rogers, hanno creato a Chelsea, la zona di Londra che ospita una delle più grandi comunità di espatriati americani.
Ruth Rogers, voleva diventare chef fin da ragazza, quando viveva con i suoi genitori nello Stato di New York?
«No, non ci pensavo affatto. A casa nostra si mangiava bene e a me piaceva. Mangiare seduti a tavola era importante, non solo per il cibo ma per la conversazione. I miei genitori si interessavano di politica ed erano socialmente impegnati: mio padre andò in Spagna per la guerra civile. Sono arrivata a Londra a 19 anni nel 1968 e vivendo in Europa mi sono interessata sempre di più al cibo».
Perché era venuta a Londra?
«Ho frequentato per un anno il Bennington College. Il mondo era in tumulto e non volevo starmene confinata in un college femminile nel Vermont mentre si trattava di temi come la guerra in Vietnam e il diritto alla libertà di parola. Ormai sono qui da oltre 50 anni».
Perché è rimasta?
«Mi sono innamorata. Ho conosciuto Richard quando avevo vent’anni e ci siamo sposati nel 1973. Richard ha incontrato Renzo Piano nel 1969-’70 e hanno vinto insieme il concorso del Centre Pompidou. È stato proprio lì che ho iniziato a cucinare».
Come mai?
«Renzo conservava la tradizione italiana di tornare a casa a pranzo tutti i giorni, così ho iniziato a cucinare per lui. Richard e io vivevamo vicino a un mercato e ho scoperto l’importanza del cibo di stagione: vai al mercato e decidi lì cosa mangerai invece di stabilirlo prima. Richard è nato a Firenze, ma la sua famiglia era triestina. La madre di Richard, Dada, era una cuoca davvero brava, la sua cucina del Nord Italia fu in seguito influenzata dal fatto di vivere a Firenze. Abbiamo imparato a conoscere Parigi attraverso la cultura dei ristoranti ed eravamo ossessionati dal cibo. Avevo in mente quel tipo di ristoranti quando ho aperto il mio».
Era il 1987. Facevate cucina italiana?
«Fin dal primo giorno. Rose aveva vissuto a Lucca con i figli per due anni, e io avevo l’esperienza della famiglia di Richard. Abbiamo capito che quella era la direzione. E volevamo cambiare il menù ogni giorno, come a casa».
Avevate delle specialità?
«Un giorno Rose preparava i panini e io la pasta; e il giorno dopo viceversa. Solo panini e pasta».
E com’è andata?
«Siamo quasi fallite. Era molto difficile guadagnarci qualcosa, ma non ci siamo arrese e Richard ci ha supportate. Dopo circa sei mesi, ci fu permesso di aprire al pubblico per pranzo. Finalmente avevamo un ristorante. Lucian Freud veniva quasi tutti i giorni. Amava il River Café».
E a cena?
«Dopo un altro anno ci è stato permesso di aprire dal lunedì al venerdì la sera, e poi anche nel fine settimana. Nel 1993, quattro anni dopo la nostra apertura, si liberò uno spazio adiacente, e decidemmo di ampliare il ristorante in modo da avere una vera cucina, un forno a legna e più persone».
E siete diventate di moda?
«Abbiamo cominciato ad attirare l’attenzione. Sul New Yorker è uscito un articolo che parlava del nostro fantastico ristorante. Il Los Angeles Times ha mandato un giornalista. In tanti scrivevano di questo piccolo ristorante che era fuori del centro e dovevi fare un bel viaggio in auto per arrivarci, e non sapevi mai cosa avresti trovato da mangiare e a tavola ti servivano le cuoche con addosso il grembiule. La gente ha iniziato ad arrivare».
Dopo Lucian Freud avete avuto molti clienti famosi?
«Sì, artisti come Cy Twombly e Ellsworth Kelly, grandi scrittori come Salman Rushdie, politici come John Kerry, poi ministro degli Esteri, attori come Michael Caine, Ralph Fiennes, e tutti i grandi architetti, Frank Gehry e Renzo Piano e Jean Nouvel. Ma per me contano le persone, voglio che mangino bene e stiano bene. Il River Café è come una famiglia dove si torna volentieri. Alcuni tornano ogni giovedì, altri ogni compleanno, altri sempre. In un certo senso questo ristorante per loro è una casa».
Lo spazio è stato progettato da Richard?
«Ci siamo ingranditi quattro volte e non abbiamo mai fatto nulla che non fosse stato progettato da lui. Spazio e luce, con finestre dal pavimento al soffitto che si affacciano sul fiume, questo è il nostro ristorante. Ha una cucina completamente aperta in modo da poter vedere tutti gli chef all’opera e un forno a legna rosa brillante dove si vede il cibo che cuoce sul fuoco. C’è un grande bancone e una bellissima serie di schermi di vetro riflettente».
Qual è il segreto del suo successo?
«Non deve chiederlo a me, ma a chi ci sceglie. Penso che ispiriamo fiducia. I nostri clienti sanno che abbiamo ingredienti di altissima qualità e cerchiamo di compiacerli e accontentarli. Una volta, se era un’occasione speciale o volevi del buon cibo, dovevi andare in un ristorante formale, vestirti in un certo modo e comportarti bene; e il maître ti faceva sentire un po’ stupido. Poi Alice Waters e molti altri hanno detto: "Perché non possiamo avere dei ristoranti dove si mangia bene, ma ci si può anche rilassare senza troppe formalità?". Ecco, The River Café è così».
Come ha fatto a mantenersi ad alti livelli così a lungo?
«Siamo tutti lì ogni giorno, io e i miei collaboratori. Steve Jobs ha detto: "Se ami il tuo lavoro non dovrai mai più lavorare". Penso che sia proprio vero. Amo andare al lavoro e voglio che sia lo stesso per tutti quelli che lavorano per me. Se è così, le persone adorano venire a mangiare da te».
(Traduzione di Carla Reschia)