Corriere della Sera, 4 ottobre 2020
Falliscono i costruttori del Burj Khalifa
Dubai bye-bye. Si sa che chi troppo in alto sal, cade sovente, e stavolta il tonfo è dalle altissime torri del Golfo. Meglio: dal più alto grattacielo del mondo, il Burj Khalifa. Quello spillone neofuturista di 830 metri e 163 piani, conficcato nel cielo dubaiano e diventato il simbolo di tutti i lussi arabi, dov’è normale incrociare Tom Cruise e Roger Federer. L’albergone delle meraviglie è ancora in piedi. Ma a crollare come argilla è il colosso che l’ha tirato su, l’Arabtec Holding Pjsc. La compagnia che negli ultimi 45 anni ha disegnato lo skyline delle ricchezze emiratine e che mercoledì ha dichiarato fallimento con poche, rassegnate parole: «Nonostante i nostri sforzi – ha detto il presidente, Walid al-Muhairi – la situazione è insostenibile».
Che botta: si ferma la Grande Betoniera degli sceicchi, si cancella la firma in calce a 240 fra le più famose e imponenti opere edilizie di fine e d’inizio secolo, dal Louvre di Abu Dhabi all’aeroporto di Dubai. Il patibolo durava almeno da sei anni, da quando iniziò a declinare l’edilizia residenziale di lusso in quella parte di mondo, ma il boia di oggi ha un nome preciso: Covid-19.
Sono le prime vittime della crisi da virus. Con due date che dicono tutto: il 30 gennaio scorso, mentre nel cuore di Dubai s’inaugurava l’Expo 2020, in un ospedale vicino si registrava la prima infezione del Medio Oriente. Il 30 settembre, mentre negli Emirati si denunciava il più alto numero di positivi dell’anno, l’Arabtec si toglieva dai padiglioni e da quella che era stata annunciata come «la prima grande occasione post-pandemia». A fallire è un gruppo, a traballare è l’intero modello Dubai che tanta Asia e molta Africa hanno regolarmente cercato d’importare e imitare. Un prototipo di sviluppo anni ‘80, capace di trasformare l’emirato in una mecca di finanzieri, mercanti e, per l’appunto, costruttori. Poco (si fa per dire) petrolio, da quelle parti: nell’Uae, la ricchezza da idrocarburi è sempre toccata alla capitale amica-nemica Abu Dhabi e a Dubai la diversificazione, in grattacieli o in isole artificiali, è sempre stata una condizione di sopravvivenza. Un onore, un onere: fu grazie ai 20 miliardi di dollari pompati da Abu Dhabi che Dubai riuscì a superare la crisi finanziaria 2008 e Arabtec potè inaugurare il Burj Khalifa. Da quello choc ci si riprese, evitando la bancarotta. «Stavolta è molto diverso – avverte un economista di Oxford, Scott Livermore – il colpo è molto più duro e non mi stupirei se altri costruttori seguissero la sorte di Arabtec».
La moschea più alta del mondo, gli ascensori più veloci del mondo: adesso, il Burj Khalifa è anche l’hotel più caro del mondo. Costruito per resistere a venti da 150 km/h, riparato dalle sue 26mila vetrate temprate e frangisole, c’è qualcuno disposto a metter soldi nella tormenta dell’Expo-Covid e in un’economia scottata dal petrolio bollente? «Costruisci, e loro arriveranno», era una volta lo slogan dei grandi palazzinari di Dubai. Si costruiva, e gli stranieri investivano. I cantieri ormai sono fermi da mesi, le gru impolverate dal deserto: fallisci, e scapperanno?