Il Post, 4 ottobre 2020
Ultime sul mondo dei giornali
Dalla newsletter del Post “Charlie”
Ben due cose che leggerete qui sotto pongono più in generale la questione di come sia raccontata la cronaca sui maggiori quotidiani e siti di news italiani. È raccontata applicando a storie e fatti delicati, spesso tragici, molto complessi, le semplificazioni e le banalizzazioni proprie dei linguaggi e degli approcci giornalistici su ogni altro tema: l’enfasi drammatizzante, il suggerimento di emozioni al lettore, la macchiettizzazione di persone e situazioni, l’indifferenza al ruolo pedagogico di una informazione attenta.
Se queste derive rendono già povero e inaffidabile il racconto della realtà su temi come la politica, l’economia, gli esteri, generano invece pericoli reali ed estesi per le vite delle persone e delle comunità quando sono applicate sulle vite delle persone e delle comunità. Non si possono denunciare i modelli deprecabili di dolore e conflitto costruiti artificiosamente da certi programmi televisivi e fare lo stesso con quello che dovrebbe essere il racconto della realtà.
L’obiettivo prevalente della maggior parte - con preziose eccezioni - degli articoli che leggiamo a proposito di storie di cronaca non è oggi mettere in ordine i fatti, fornire informazioni, descrivere i contesti sociali, ma far diventare quelle storie delle "STORIE": farle diventare la sceneggiatura di un film. Ma il mestiere di giornalisti è diverso da quello di sceneggiatori, per delle buone ragioni.
Fine di questo prologo.
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Il coltello dalla parte di Google
Google ha presentato giovedì un progetto che ha raccolto grandi attenzioni e grandi diffidenze da parte delle aziende giornalistiche in tutto il mondo. In estrema sintesi - per ora il progetto è stato raccontato sbrigativamente - si tratta di un servizio di distribuzione e promozione online dei giornali che prevede un pagamento da parte di Google per gli articoli e i contenuti usati nel servizio. Un Google News "speciale", diciamo.
Come funzionerà non è appunto ancora chiaro, ma questo è l’aspetto che fa meno notizia, dal punto di vista di chi segue le economie dei prodotti giornalistici. La notizia è infatti che Google abbia pensato di scendere a patti con le insistenze dei giornali per essere retribuiti per come Google cita e linka i loro articoli, e che abbia pensato di affrontare la cattiva pubblicità che le viene da questa ormai longeva polemica, ma che abbia pensato - come è tipico dell’azienda - di farlo imponendo le proprie condizioni e mostrando di ignorare quelle richieste dalla controparte.
In breve, è come se Google avesse detto: «sceglieremo noi con quali testate fare accordi e a quali dare dei soldi, sceglieremo noi cosa fare dei loro contenuti, li useremo dentro una cosa presentata come "una cosa nuova di Google". E per farlo offriamo a diverse testate - non a tutte, soprattutto a quelle più forti e più arrabbiate con noi e nei paesi dove corriamo più rischi di sentenze avverse - un gruzzoletto che non potranno rifiutare, scompaginando il fronte dei giornali contro di noi. E sia chiaro: sono soldi che decidiamo di dare autonomamente per "aiutare l’informazione", non perché ammettiamo qualunque tipo di debito nei confronti dei giornali».
E i giornali internazionali - anche quelli italiani - sembrano nei giorni scorsi aver reagito come hanno sempre fatto in questi anni di rapporti con Google o Facebook: con articoli diffidenti e critici, ma grande attenzione a non rinunciare a qualunque compenso o aiutino.
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I periodici in questo periodo
Abbiamo scritto molto dei quotidiani e dei siti di news, ma i "giornali" sono anche tanto altro. Gli altri di carta sono ancora chiamati "periodici", benché dentro questa categoria ci siano condizioni molto diverse. Ma una cosa che li avvicina è la loro condizione nei confronti del cambiamento digitale. A differenza delle testate quotidiane che, per natura della loro copertura appunto "quotidiana" delle news, hanno creato le loro versioni web in forte sintonia con la funzione di quelle di carta originali, i settimanali e i mensili hanno ruoli completamente diversi per i lettori rispetto a ciò che può offrire un sito web. I siti web dei periodici non hanno nessun rapporto con la periodicità delle loro testate di carta. Ma questo è solo un elemento delle molte perdite di ruolo dei periodici di cui nelle prossime settimane parleremo più puntualmente. Per oggi introduciamo questo argomento e lo confortiamo con qualche numero su quanto il settore sia stato travolto dalle trasformazioni digitali e culturali di questi anni. Questi sono i dati di vendita a luglio dei più noti settimanali, e le perdite percentuali rispetto al 2019 e al 2015 (dati ADS).
Dipiù 418mila (-7%/-29%)
Sorrisi e canzoni 412mila (-5%/-27%)
Gente 212mila (-3%/-16%)
Famiglia Cristiana 201mila (-10%/-38%)
Espresso 191mila (-18%/+16%) nel 2015 non era ancora un allegato di Repubblica
Oggi 191mila (-26%/-33%)
Chi 149mila (-17%/-50%)
Diva e Donna 147mila (-22%/-40%)
Intimità 139mila (-8%/-30%)
Donna Moderna 112mila (-22%/-58%)
Grazia 109mila (-15%/-43%)
Vanity Fair 96mila (-15%/-50%)
Panorama 58mila (-24%/-71%)
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Di buone intenzioni
All’inizio della settimana si è discusso molto, nelle redazioni, delle istruzioni che la direzione di Repubblica ha diffuso tra i suoi giornalisti rispetto alle formule da usare quando il giornale si trovi a scrivere di violenza contro le donne. Se ne è discusso per diverse ragioni.
La prima è il contenuto delle istruzioni, benintenzionate ma con esempi che conservano un più generale problema di scrittura teatrale ed emotiva nei giornali italiani (tra le frasi consigliate: "Il cadavere della donna come una bambola finalmente ai suoi comandi", "Neanche in morte l’ha lasciata libera").
La seconda è la reazione di parte della redazione di Repubblica: ci sono stati risentimenti e permalosità da parte di alcuni giornalisti indisponibili ad ascoltare indirizzi su come scrivere.
La terza è che questi indirizzi siano arrivati con la consulenza di Michela Murgia, collaboratrice del giornale ma ritenuta da alcuni non dotata dell’autorevolezza "aziendale" per dire ai giornalisti come scrivere. Il Foglio, che ha commentato la cosa, ha riportato questa reazione del Comitato di Redazione di Repubblica: "non crediamo che i professionisti di un quotidiano che da oltre quarant’anni fa la storia del giornalismo italiano abbiano bisogno di decaloghi di sorta".
E in effetti ci sono state probabilmente delle scelte un po’ avventate da parte dei responsabili di Repubblica che hanno destinato ai giornalisti delle istruzioni che erano state pensate per i social network (sui quali c’è appunto una collaborazione con Murgia) facendoli diventare delle regole universali e perentorie, senza raccogliere maggiori pareri o contributi.
Insomma, la storia si è spostata rapidamente dalla più attuale e rilevante materia del rapporto tra linguaggio comune e cultura della violenza, alle dinamiche e sensibilità all’interno di una redazione in generale poco disposta ad "accettare lezioni".
Ma sul primo tema, invece, ha scritto delle cose ragionevoli Prima Comunicazione, dubitando dell’eccessiva schematizzazione degli esempi citati:
"l’idea di semplificare con esempi di linguaggio corretto la dolorosa complessità di alcuni di questi casi è una brutta scorciatoia che non porta lontano su una strada ancora lunga da percorrere. Soprattutto non aiuta a creare in chi fa informazione la reale consapevolezza di quanto i condizionamenti maschilisti e sociali possano sporcare le cronache con parole che feriscono o negano l’identità e i diritti di una persona, tanto che si parli di femminicidi quanto di vicende che riguardano appartenenti alla comunità Lgbt+, disabili, immigrati e ogni altro essere umano che con brutta espressione usiamo definire ‘soggetto debole’."
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Il caso Callimachi
C’è una storia che agita le riflessioni dei commentatori americani delle cose del giornalismo, che è molto americana - ha a che fare con rigori di quel giornalismo che qui sembrano extraterrestri - ma anche molto istruttiva. La storia riguarda Rukmini Callimachi, 47enne giornalista del New York Times che negli anni scorsi è diventata forse la giornalista più importante e famosa tra quelli che hanno seguito e raccontato le cose dell’ISIS e del terrorismo islamista: candidata quattro volte al Pulitzer, autrice di reportage celebrati e di un podcast di grande successo, Caliphate. Quello che è successo è che nelle scorse settimane a una serie di dubbi via via emersi sull’accuratezza e affidabilità delle fonti e dei documenti usati da Callimachi (in qualche caso dimostrati proprio falsi) se n’è aggiunto un altro, robusto, sul maggiore protagonista del podcast, che è stato arrestato in Canada con l’accusa di avere inventato le cose che aveva raccontato in altre occasioni sul suo rapporto con l’ISIS, e di avere messo quindi a rischio la sicurezza dei cittadini canadesi con descrizioni e racconti falsi della realtà.
Diverse testate importanti - il Washington Post per primo - hanno esposto dubbi sul metodo di lavoro di Callimachi: finora attribuendole non tanto malafede quanto insufficiente rigore nelle verifiche, e il New York Times si sta trovando in difficoltà nell’equilibrio tra difendere il suo lavoro e la necessità di indagare meglio su eventuali falle.
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Pubblicità legale
Anche nel Regno Unito si sta ponendo la questione degli obblighi per legge di pubblicità "legali" degli enti pubblici: in particolare quelle che riguardano bandi e avvisi delle amministrazioni locali.
Avevamo parlato del tema qualche settimana fa, e di come sia diventato anacronistico che per una maggiore informazione dei cittadini e delle imprese coinvolte, e una maggiore trasparenza, si chieda agli enti pubblici di pubblicare avvisi di questo genere sui "quotidiani", quando ormai i suddetti obiettivi si raggiungono in maniera più duratura, capillare, efficace ed economica (per il "pubblico") utilizzando i canali online: siano essi siti istituzionali, social network, o ancora siti di news, dove la visibilità garantita è maggiore e più prolungata.
L’adattamento di buon senso di queste regole è oggi frenato dagli editori di carta, che comprensibilmente temono la perdita dei ricavi - esigui, ma tutto è prezioso di questi tempi - che viene da questi obblighi. Ora il governo britannico sta pensando di intervenire, ma i giornali di carta - soprattutto locali - sono molto allarmati e combattivi.
"The Government published the Planning for the Future white paper in August, setting out ways it could modernise the planning process including by removing the requirement for local authorities to print statutory notices in local newspapers in a shift to more online spaces."
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Un bambino di 11 anni
Simone Spetia, apprezzato e serio giornalista di Radio24, ha scritto su Facebook per protestare di un metodo giornalistico assai incosciente ma assai frequente tra le maggiori testate:
"Ci ritorno, perché il tema è fondamentale.
Oggi la maggior parte delle testate online e offline ha violato qualsiasi regola di buon senso e deontologica nel trattare il suicidio di un bambino di 11 anni. Tra le altre cose è stato indicato il luogo, del quale su alcuni quotidiani si trova persino la foto, ed è stata ipotizzata con pochi dubitativi una causa, un’origine, in un presunto gioco autolesionista via social. Un cosa in stile Blue Whale, del quale tutti ormai dovremmo sapere che è una bufala, visto che non vi sono casi accertati e vi è un unico processo per istigazione al suicidio collegato a quella vicenda, peraltro non ancora concluso.
Si è amplificato il messaggio e si sono aperte le porte a potenziali emuli della persecuzione e emuli del suicida. Quest’ultimo punto, poi, è fondamentale: è accertato che parlarne, soprattutto in un certo modo, soprattutto con questa enfasi, può spingere altre persone a togliersi la vita.
E poi il tema delle motivazioni. Siamo umani, è normale che siamo spinti a cercare l’origine di un comportamento che ci appare inspiegabile, ma il livello di insondabilità e complessità della mente di chi compie un gesto del genere, foss’anche un bambino di 11 anni, non consente semplificazioni del tipo "è stata la disoccupazione", "è stata la separazione", "è stata la crisi economica", "è stato il bullismo". Ovvio che ci sono delle scintille, ma queste generalmente incendiano un universo di fragilità che non siamo in grado di vedere, neanche quando siamo parenti, amici o addirittura genitori di chi la fa finita.
A volte i corsi di aggiornamento professionale servono. Ho assistito ad un incontro, qualche tempo fa, nel quale Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Toscana, disse una cosa che mi sono scolpito in testa: "Quando dovete scrivere di un suicidio di un ragazzino o di un adolescente, fatelo immaginando che sia vostro figlio". Forse contravviene alla regola aurea di prendere le distanze, ma aiuta a fare le cose con la dovuta delicatezza e sensibilità. Che è mancata ancora una volta."
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La più grande correzione dell’anno
Dopo l’inchiesta sulle recenti mancanze del giornale che avevamo segnalato una settimana fa, il Los Angeles Times ha pubblicato un editoriale e uno speciale senza precedenti, dedicati alle proprie colpe nel trattare le discriminazioni razziali in tutta la sua storia.
"On behalf of this institution, we apologize for The Times’ history of racism. We owe it to our readers to do better, and we vow to do so. A region as diverse and complex and fascinating as Southern California deserves a newspaper that reflects its communities."
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Linkiesta un po’ alla volta
Il direttore del sito di news Linkiesta, Christian Rocca, ha pubblicato un editoriale/bilancio di come vanno le cose dopo un anno che è lì.
"In questo anno, nonostante il Covid e in attesa del Festival, sono aumentati i ricavi rispetto al 2019 ed è stato ampliato il parco di partner editoriali, quasi un miracolo date le circostanze. Abbiamo cambiato anche la concessionaria pubblicitaria, grazie all’ingresso nel network di News online, e i primi risultati cominciano a vedersi in questi giorni. Da qualche mese, su Linkiesta c’è anche il player di Skytg24, con le ultime notizie video del canale all news diretto da Giuseppe De Bellis e una condivisione dei ricavi pubblicitari che vi transitano.
La società editoriale Linkiesta però non ha ancora raggiunto il pareggio di bilancio verso il quale era indirizzata prima del Covid, ma la trasformazione del modello di business basato sulla pubblicità digitale in una piattaforma di contenuti a pagamento per lettori, partner, e aziende procede senza affanni: i lettori sono partecipi e fedeli, con picchi da quasi un milione al giorno di utenti unici durante la fase più acuta del virus, per poi ristabilizzarsi su una media di quattro milioni di articoli letti al mese.
Lo stato de Linkiesta dunque è buono."
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Molti lanci in verticale
Un manager di una grossa azienda editoriale questa settimana ha descritto così la situazione: "il declino riguarda tutti, senza eccezioni: quelli messi meglio sono quelli che partivano da posizioni più solide e maggiori successi, e hanno più scorte d’aria per inventarsi qualcosa prima di affogare; ma questi sei mesi è come se avessero precipitato le cose di due anni in avanti".
Gli effetti della crisi di ricavi pubblicitari sui giornali, accelerata dalla crisi del coronavirus, hanno come ricaduta visibile anche ai lettori la presenza sempre più trasparente di contenuti legati agli inserzionisti sulle pagine dei giornali suddetti: su alcuni dei grandi quotidiani è ormai molto facile individuare quale ragione di promozione o gentilezza con questo o quell’inserzionista abbia motivato molti degli articoli. Ma il creare occasioni di attrazione per gli investimenti pubblicitari è soprattutto la ragione che spiega la grande quantità di lanci di "verticali" da parte dei quotidiani in questi ultimi anni: ovvero allegati e supplementi dedicati a temi specifici che possano ospitare le inserzioni delle aziende più legate a quei temi, oppure - è il caso dei contenitori connessi ai temi ambientali - delle aziende interessate a un "greenwashing" della loro immagine non particolarmente apprezzata. L’elemento ulteriormente interessante è che l’occasione più forte di raccolta pubblicitaria intorno a questi speciali è il loro "lancio", che consente una serie di promozioni dell’iniziativa eccezionali - sia sui giornali stessi che in eventi connessi - e che danno molta visibilità agli sponsor e ai brand coinvolti (questo è un articolo dedicato questa settimana a uno di questi "lanci"): la conseguenza però è che quasi sempre questi progetti perdono successivamente quella grande visibilità iniziale e quindi anche le opportunità che offrono gli inserzionisti, costringendo a ripensamenti, ridisegni, chiusure, ribattesimi, per poter sfruttare di nuovo il "lancio".
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Chiacchiere
Repubblica ha intervistato con qualche compiacimento Daniela Santanché su un’ipotesi del suo ingresso nella compagine societaria del Fatto.
Allora venerdì il Fatto ha scritto in un breve box che ci sarebbe un’ipotesi di "nuovo giornale" diretto da Francesco Merlo, ora a Repubblica, e coinvolgerebbe anche Antonio Gnoli, sempre di Repubblica. Merlo ha smentito nel giro di poche ore.
Come avevamo spiegato una settimana fa, il Fatto sembra avere raccolto in questi mesi una piccola quota preziosa di lettori sospinti altrove dalla narrazione sulla "fine di Repubblica come la conoscevamo".
Già che ne parliamo, quella narrazione continua a raccogliere invece più solidi argomenti, come la festosa intervista del direttore Molinari con il segretario di stato dell’amministrazione Trump, Mike Pompeo, titolata con parole simili a quelle che abitualmente usa Matteo Salvini, e difficile da immaginare con le direzioni precedenti:
"Pompeo, 56 anni, è il più stretto consigliere del presidente Trump sui temi della sicurezza e si comporta come tale: non abbassa mai lo sguardo dall’interlocutore, ogni parola è misurata, conosce a menadito la mappa delle crisi ed ha bene in mente come tutelare l’interesse dell’America d’intesa con gli alleati. I messaggi che ci consegna sono cristallini".
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Polemichette
Laura Cesaretti del Giornale ha commentato il "workshop di giornalismo" con lezioni tenute da Alessandro Di Battista.
Intanto, a Livorno, e a Ferrara, e a Modena, e a Reggio
Il gruppo GEDI comunque continua a essere protagonista delle maggiori vivacità nel settore delle aziende giornalistiche. Nei giorni scorsi è circolata la notizia - non smentita e a questo punto piuttosto credibile - di un’intenzione di vendere quattro dei quotidiani locali del gruppo. Notizia grossa per due ragioni: una è che la rete di quotidiani locali "ex Finegil" è sempre stata un asset molto importante e simbolico della forza e distribuzione del gruppo Espresso, con molte testate e alcune particolarmente illustri, e questa vendita potrebbe essere il primo di una serie di grossi interventi di riduzione di costi della nuova proprietà: l’altra ragione riguarda le quattro testate coinvolte, e l’agitazione - in termini sindacali e letterali - che la notizia ha generato.
I quattro quotidiani sono il Tirreno di Livorno (che presidia dalla fine della guerra l’informazione locale su tutta la costa toscana ed è il maggiore dei quattro), la Gazzetta di Reggio, la Gazzetta di Modena e la Nuova Ferrara. Tutti i quotidiani locali del gruppo hanno scioperato venerdì e sabato. Le altre redazioni GEDI si sono "riservate prossime iniziative".
(il primo sito a pubblicare la notizia l’aveva messa in relazione a un’intenzione della proprietà GEDI di acquistare il Sole 24 Ore, nientemeno - operazione impossibile al momento per le regole antitrust, stanti le dimensioni del gruppo GEDI -, che sarebbe un’altra grossa rivoluzione: ma per ora questa è una storia che sembra più fragile, pur essendo fondato che il Sole 24 Ore sia in particolari riflessioni rispetto al suo futuro).