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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

49QQAFA10 Intervista a Karl Ove Knausgård

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«L’abitudine è nemica della letteratura. L’arte è l’eccezione. Se ti ripeti, la tua energia muore». Karl Ove Knausgård è diventato un caso internazionale con i sei volumi autobiografici de La mia battaglia — in tutto 4.145 potenti pagine di «fiction della realtà» che gli sono valse l’appellativo di «Proust norvegese» (l’anno scorso, intervistandolo alla Buchmesse di Francoforte, anche il direttore Jürgen Boss era visibilmente toccato e commosso). Non solo affetto e gloria, però. Diversi sono stati, nel corso del tempo, i familiari feriti o in collera per essersi sentiti esposti nel gigantesco memoir o avere saputo troppo proprio attraverso quelle pagine.
In Norvegia la pubblicazione è avvenuta tra il 2009 e il 2011, poi l’autore stesso ha scelto l’«eccezione», il cambiamento. Nel 2015 è uscito In Autunno, primo di quattro libri illustrati che aprono una nuova Quadrilogia delle Stagioni, pubblicata nel corso di due anni. Una serie decisamente più breve, composta da capitoli di poche pagine dedicati alla quarta figlia, che allora doveva ancora nascere: la piccola Anne, avuta dalla scrittrice Linda Boström (dalla quale nel frattempo Knausgård si è separato). Lo scorso 18 settembre, l’ultima svolta con l’uscita del romanzo Morgenstjernen («La stella del mattino», per ora solo in norvegese), pura fiction che attinge al soprannaturale.
L’autore parla al telefono con «la Lettura» da Londra, dove ora vive con una nuova compagna e la loro famiglia allargata. L’occasione è l’uscita in Italia, giovedì 8 ottobre, di In Autunno, edito da Feltrinelli, che ha pubblicato anche l’intero ciclo de La mia battaglia (tutti i titoli dello scrittore sono tradotti da Margherita Podestà Heir).

«Dopo prenderemo il treno per Malmö, ci metteremo in macchina e andremo a casa, la nostra casa, e durante tutto il tragitto mi godrò, mi godrò davvero, il pensiero che non sono più uno scrittore». Karl Ove Knausgård, lei lo aveva detto in «Fine», l’ultimo capitolo de «La mia battaglia» uscito in Italia lo scorso 5 marzo. Al netto della finzione letteraria, per quanto «autofiction» nel suo caso, è stato difficile tornare a essere uno scrittore dopo oltre 4 mila pagine?
«Mentre ero impegnato su La mia battaglia sapevo solo una cosa: come sarebbe dovuta finire. E cioè con me che non ero più uno scrittore. Era la conclusione perfetta. Completare il ciclo è stata anche una via d’uscita personale da una certa immagine, dalla figura che aveva ideato quell’opera, dalla sua lotta con la scrittura, con l’ambizione, con la voglia di essere un autore. Finire è stato come ucciderla. Ma uccidere quella specifica figura, non l’autore in generale. Non intendevo smettere del tutto di scrivere, ma scrivere altro».
Così è nata la «Quadrilogia delle Stagioni».
«Ho pubblicato alcuni saggi, poi ho avviato questo progetto letterario. Certo, è legato a La mia battaglia perché sono ancora io che mi esprimo in prima persona, su fatti veri, in un tono intimo. L’approccio però è diverso, sia rispetto alla scrittura sia rispetto al mondo. Lo sguardo di In Autunno non si rivolge più all’interno ma all’esterno, allo spazio, a quello che mi circonda, non c’è psicologia, non c’è più lotta».
Tornano però, e in primissimo piano, i dettagli, gli oggetti quotidiani. Mele, gomme da masticare, stivali, lattine, comignoli... a partire dai quali si snoda ogni capitolo.
«Da tempo cercavo di ispirarmi al poeta francese Francis Ponge, che ebbe il dono di scrivere dal punto di vista delle cose. Lo lessi da giovane, mi piacque molto, e già dopo il mio primo romanzo, nel 1998, a trent’anni, provai anche io a esprimermi a partire dagli oggetti. Mi rimasero duecento parole sullo schermo del computer, non ci riuscii. Dopo La mia battaglia, però, scrivere è diventato molto più facile, così ho ritentato e sono nati i testi della Quadrilogia delle Stagioni, uno al giorno, svegliandomi presto ogni mattina».
I giorni sono quelli dell’attesa di sua figlia Anne, alla quale nel primo libro sono esplicitamente dedicate tre lettere, una all’inizio di ogni mese dell’autunno, che si alternano alle brevi prose.
«Mentre aspettavamo la sua nascita, ho sentito il desiderio di iniziare a scriverle. Le avrei consegnato le lettere, pensavo, quando avrebbe compiuto diciotto anni. Poi, via via, quell’anelito e il progetto sugli oggetti si sono uniti: avrei potuto raccontare ad Anne le cose che avrebbe visto una volta nata, delle quali sarebbe stata parte. Così il mio sguardo è diventato quello di chi vuole svelare il mondo a un bambino, mostrarlo fresco e nuovo. Ecco, è con questo spirito che sono riuscito a parlare anche della tazza del water (definita il “cigno della stanza da bagno”, ndr)».
Perché ha scelto le quattro stagioni?
«Cercavo una forma, un contenitore, e mi è venuto spontaneo visto che l’idea era scrivere un testo al giorno per un anno. Al contempo le stagioni con il loro alternarsi rappresentano il cambiamento, e insieme tornano sempre. Mi offrivano una struttura semplice ma interessante. La forma modella sempre un libro, influenza ciò che è possibile pensare dentro quel testo. Perciò, per quanto mi riguarda, periodicamente cerco di cambiarla, perché non mi interessa quello che penso io ma quello che il libro stesso può pensare, può contenere».
Anche l’autrice britannica Ali Smith, tra i contemporanei, ha scritto un ciclo ispirato alle stagioni (in Italia sono usciti da Sur «Autunno», «Inverno» e «Primavera»). Ha letto questa serie?
«No a dire il vero, ma so che nel caso di Ali Smith il genere è il romanzo, molto concentrato sull’attualità».
Il suo «In Autunno» è illustrato con dipinti dell’artista norvegese Vanessa Baird. I successivi libri, dedicati a inverno, primavera ed estate, contengono rispettivamente opere degli svedesi Lars Lerin e Anna Bjerger. E del maestro tedesco Anselm Kiefer. Perché inserire anche l’elemento visuale?
«L’arte ha il potere di portarmi via in un attimo, è pura emozione. Nonostante io l’abbia studiata, ne abbia scritto a livello teorico, continua a farmi questo effetto. Nella letteratura il corrispettivo potrebbe essere la poesia, ma purtroppo non mi riesce. Dunque i brevi testi della Quadrilogia delle Stagioni sono quanto di più vicino alla pittura io possa realizzare. Un’opera d’arte la vedi in pochi minuti e poi vai a quella dopo e a quella dopo ancora, e ancora... e così, in un certo senso, ci si può muovere tra le prose della tetralogia. La pittura, inoltre, ha a che fare con lo sguardo, e anche i brani di In Autunno nascono dal tentativo di vedere una cosa, di descriverla, evocarla, di estrapolarne il sentimento. È un senso dello scrivere che ho amato molto, mi ha portato a qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. E forse grazie a questo ho trovato persino il coraggio di contattare Kiefer, da sempre uno dei miei artisti prediletti».
Com’è andata?
«Stavo visitando una sua mostra qui a Londra. Alla fine del percorso c’era un acquerello di donne e chiese, di acqua e cielo blu. Un’opera semplice ma luminosa, straordinariamente bella. Così ho pensato: “Dovrei scrivere a Kiefer per il mio progetto, ma è un personaggio troppo famoso, non accetterà mai”. Però alla fine ho provato. Mi ha risposto dopo sei mesi, invitandomi a pranzo a Parigi, e ha deciso di collaborare. Ha partecipato al volume ispirato all’estate».

In un capitolo di «In Autunno», dal titolo «L’uccello rapace», lei racconta la sua prima volta alla Galleria Nazionale di Oslo e l’incontro con Edvard Munch: «All’improvviso tutto il resto era come sbiadito (...). L’eccezione era l’arte».
«Quando sei troppo avvezzo alla quotidianità, quando sei sempre occupato in qualcosa e non ti poni più domande su ciò che ti circonda, sul suo senso, vuol dire che il mondo si è disperso nell’abitudine. Uno dei compiti dell’arte, invece, è irrompere nel mondo e fare in modo che torni visibile, che si schiuda. È, in parte, il motivo per cui l’arte nel tempo cambia sempre, per dare questa scossa alla nostra percezione».
È appunto quello che accade con Munch?
«Quando negli anni Ottanta dell’Ottocento inaugurò la serie de La fanciulla malata il contesto era ancora quello del realismo. Lui però ci lavorò un anno: aggiunse la pittura, tolse la pittura, aggiunse la pittura... lasciò i segni di quelle pennellate e diede vita a un dipinto incredibilmente emozionante, davanti a cui si ha l’impressione di essere anche noi nella stanza della malata. Munch aveva perso una sorella e il padre era morto quando lui era giovane. Credo sia stata tutta quella sofferenza il motore del suo innovare: voleva esprimerla ma non riusciva a farlo attraverso i modelli tradizionali. Così ha demolito tutto. E ha inventato altro».
Anche la sua scrittura, ai tempi de «La mia battaglia», è stata una rivoluzionaria «eccezione».
«All’inzio ero molto frustrato. Volevo scrivere della morte di mio padre, era il punto di partenza, ma non ci riuscivo. Ho provato con la fiction, non funzionava: sono andato avanti per molti anni ma nulla, c’era qualcos’altro che volevo esprimere. Così mi sono detto: al diavolo la letteratura, le storie, scrivo e basta, nel modo più diretto possibile, su di me, sulle persone reali, su ciò che davvero sento delle cose. È stata la mia via di accesso al mondo. Dopo averlo fatto, però, dopo avere trovato una forma e scritto migliaia di pagine su di me come soggetto, non potevo ripetermi. Il mondo non mi avrebbe rivelato più nulla, non avrei fatto più alcuna scoperta. Così sono andato avanti a lavorare con la serie delle Stagioni e poi con un romanzo, che è stato pubblicato un paio di settimane fa in Norvegia. È come percorrere diverse strade, nell’ambito di uno stesso itinerario».
Qual è l’itinerario? In altre parole, la sua idea di letteratura?
«La considero un modo di uscire da me stesso e vedere il mondo da altre prospettive che non siano le mie, una possibilità di pensare in maniera diversa. Può sembrare banale, ma è per questo che continuamente scrivo, e leggo, per cercare di capire qualcosa che ha a che fare con le domande di base: chi siamo, in che tipo di posto ci troviamo, che cosa è etico oppure no... È quello che ho fatto finora. Anche quando ho scritto di me, l’intenzione non era tanto parlare della mia vita, ma capire perché sono diventato chi sono, perché penso e sento in un certo modo, quanto l’ambiente possa influenzarci, che cosa sia la libertà».
Non ha risparmiato nulla né a sé stesso né ai suoi cari. Come vanno ora i rapporti familiari?
«Non parlo con i parenti di mio padre e loro non parlano con me».
Il 18 settembre è uscito il romanzo «Morgenstjernen» («La stella del mattino»). È dunque tornato alla pura fiction, abbandonata dopo i due libri precedenti a «La mia battaglia» e inediti in Italia.
«Sì, Morgenstjernen è un romanzo di 666 pagine, il numero del diavolo, ma è solo una coincidenza! Non ci sono più io ma nove differenti personaggi, tra i quali una giovane donna e un’anziana, un’infermiera, un giornalista. Attorno a loro accade qualcosa di traumatico, ma ognuno reagisce in modo diverso. È una storia che si svolge in tre giorni e attinge al fantastico».
Nel capitolo di «In Autunno» che si intitola «Canti di stoppie» lei parla del poeta norvegese Olav. H. Hauge e si sofferma sul «valore del fantastico», perché non solo infonde «una sensazione, ma anche una certezza, che esista un altro livello di realtà che comporta un’intensità di vita del tutto diversa».
«Sì, esatto. Anche Morgenstjernen attinge al soprannaturale. In questo caso è stato divertente scriverlo. Lo definirei più vicino a Stephen King che a Marcel Proust».
Lei è stato appunto definito «il Proust norvegese».
«Quello con il grande scrittore francese è un paragone che mi imbarazza. Il suo libro, quel libro, è davvero un’eccezione. Ci sono altri testi che raccontano una vita, ma non ne esiste uno come il suo: Proust riesce davvero a far sentire la distanza del tempo, quanto lontana sia, ad esempio, l’età dell’infanzia. La Recherche è incredibile, un mondo meraviglioso in cui entrare, con tutte le relazioni che innesca tra arte, architettura, temi sociali. Mi ha ispirato già ai tempi del mio primo romanzo, senza che me ne rendessi conto: lo scrissi l’anno dopo avere letto Proust, prima non ero stato in grado».
Nel libro «In Autunno» dice che «Flaubert e Tolstoj sono stati una specie di compagni». E che «“Madame Bovary” è il miglior romanzo al mondo: possiede un’acutezza cristallina di spazio e materialità a cui nessuna opera precedente o successiva è mai riuscita ad avvicinarsi».
«Madame Bovary, certamente, ma c’è un altro libro al quale faccio spesso ritorno: Guerra e pace di Lev Tolstoj. Poi amo 2666 di Roberto Bolaño. Una volta, in un saggio, ho messo a confronto proprio lo scrittore cileno e il grande narratore russo. Autori molto diversi ma entrambi brillanti, e al contempo lirici. Infine, voglio citare l’Ulisse di Joyce. È un’opera che interrogo spesso nei miei scritti teorici perché rivela sempre qualcosa di nuovo, che ti porta altrove. Si tratta di autori che mi hanno accompagnato da ventenne, e che sono ancora con me».

Nel capitolo «Chiese», osserva che «l’utopia è scomparsa dalla nostra epoca», per questo si prova più nostalgia del passato che speranza per il futuro.
«La penso ancora così. Credo sia collegato ai social media, a internet, alla comunicazione delle notizie. È come se tutto avvenisse nel presente. E così si genera la sensazione che anche il futuro sarà più o meno lo stesso e che il cambiamento non sarà possibile. Il che porta con sé la perdita della speranza. Prendiamo la crisi climatica: sappiamo che c’è ma è come se nessuno si sentisse in grado di fare davvero qualcosa. “Siamo solo singoli individui”, ci diciamo, e quello che facciamo “non conta, non conta” ci ripetiamo... Un atteggiamento del tutto diverso, ad esempio, da quello degli anni Sessanta, quando piuttosto si diceva: “Si può cambiare, possiamo riuscirci, dipende dalla nostra generazione, è la nostra vita, potremmo influenzare il futuro”. Anche in politica, quando oggi si cerca di cambiare, sembra che lo si faccia con lo sguardo rivolto al passato, basti pensare al ritorno del populismo di estrema destra. Non mi ritengo un esperto, ma questa è la sensazione che provo».
La pandemia di Covid-19 peggiorerà il quadro o, come si pensava soprattutto all’inizio, potrà stimolare il cambiamento?
«Quando è iniziato il lockdown, in Europa e nel mondo, all’improvviso non usavamo aerei, non usavamo auto. È stata la prova che potevamo farcela e che, sì, potevamo innescare un cambiamento, specie riguardo all’emergenza climatica. Sembrava che tutti insieme avremmo potuto fare qualcosa, impedire qualcosa, ottenere qualcosa... e invece adesso penso che torneremo solo a com’era prima. Un dato chiaro che ci portiamo a casa, però, è quanto la situazione sia diversa a seconda che si viva o meno in aree ricche».
In un’altra prosa del libro, intitolata «Perdono», lei scrive che «il debole non può perdonare il forte. Perdonare qualcuno significa degradarlo e svilirlo». Si aggraveranno le tensioni sociali?
«Come dicevo, l’epidemia sta mostrando ancora di più il divario enorme tra zone povere e benestanti. Un’acquisizione sempre più chiara in questa fase è, dunque, che il cambiamento non potrà prescindere da un punto di partenza economico: è lì che bisogna intervenire per promuovere la giustizia sociale. Non è che non ci siano altri temi importanti, si parla molto ad esempio delle identità, ma colpisce che il socialismo o modelli di pensiero simili siano quasi scomparsi. E che questo vuoto non sia diventato a sua volta un tema, una questione affrontata in maniera reale e non solo di facciata. Ecco, credo che questo sia parte di quella condizione di mancanza di utopia di cui parlavo».
Ha vissuto sempre a Londra la crisi Covid-19?
«Sì, durante il lockdown di marzo stavo scrivendo il nuovo romanzo, dunque ho cercato di renderlo un periodo produttivo. Ma è stato comunque terribile».