La Lettura, 3 ottobre 2020
Evangelicali e cattolici al voto negli Usa
Quando si parla di religione e politica negli Stati Uniti, il pensiero corre agli evangelicali (da non confondere con gli evangelici classici, come i valdesi e quasi tutti i protestanti italiani). Eppure, la nebulosa evangelicale è uno scatolone con un po’ di tutto; i fedeli condividono la necessità di un «risveglio» spirituale individuale (born again), di un’interpretazione testuale delle Scritture (anche se le interpretazioni differiscono) e poco altro. Sono, in larga parte, gli eredi del fondamentalismo, nato agli inizi del Novecento proprio negli Stati Uniti dalla volontà di tornare ai «fondamenti» della dottrina e della pratica cristiana. Un po’ come i salafiti nel mondo musulmano, insomma.
Negli Usa, la loro percentuale varia, secondo le fonti, tra il 20 e il 35 per cento della popolazione: i contorni statistici sono confusi perché essere evangelicali non impedisce di appartenere anche a un’altra tradizione cristiana. Quanto alle «Chiese», si va dalle 33.820 recensite nel mondo dalla World Christian Encyclopedia, alle 35 mila contate dall’Association of Statisticians of American Religious Bodies solo negli Stati Uniti. La maggior parte delle congregazioni dispone di un solo luogo di culto, spesso un ex negozio o un garage; così, una città «laica» come New York ha una densità di luoghi di preghiera cristiani (uno ogni 3.200 abitanti) doppia di una «religiosa» come Roma (uno ogni 6.600).
Quando si tratta del loro approccio alla vita sociale, la pluralità si trasforma in pluralismo: accanto a congregazioni che vorrebbero la pena di morte per i gay, ve ne sono altre accessibili solo ai gay. Le une e le altre sono frange estreme e minoritarie, beninteso, ma danno un’idea di quanto ampio sia lo spettro di sensibilità che covano sotto la stessa etichetta.
Quando si parla di religione e politica negli Stati Uniti, il pensiero corre agli evangelicali, perché sono spesso rumorosi, pittoreschi e turbolenti sul fronte politico – quasi sempre sul fronte conservatore. Il pensiero non corre mai, o quasi mai, ai cattolici, proprio perché le loro caratteristiche sono opposte: discreti, pittoreschi sì, ma di un pittoresco poco cambiato dal medioevo a oggi, e ufficialmente estranei all’attivismo politico diretto.
Eppure i cattolici sono, fin dagli inizi del Novecento, la prima denominazione religiosa negli Stati Uniti. Il National Council of Churches ne contava, nel 2012, più di 68 milioni, seguiti dai battisti del Sud, con 16 milioni di fedeli (gli evangelicali, in quanto tali, non apparivano nel censimento). Anche per i loro numeri le statistiche divergono, a seconda che si contino i battezzati (circa un terzo degli americani, oltre 100 milioni) o coloro che partecipano regolarmente alle funzioni (circa un quinto, appunto 68 milioni). Nonostante la loro conclamata estraneità, i cattolici sono sovrarappresentati in politica: all’epoca di Obama, erano cattolici il vicepresidente, Joe Biden, sei giudici della Corte Suprema su nove, più di un terzo dei ministri, il consigliere alla sicurezza nazionale (2010-2013), entrambi i consiglieri alla sicurezza interna, tutti e tre gli speaker della Camera che si sono succeduti, il 31% dei membri del Congresso, il 38% dei governatori, il direttore della Cia, il direttore e il vicedirettore dell’Fbi, i due capi di stato maggiore successivi, il comandante dei marines e il capo di stato maggiore dell’aviazione.
Le elezioni del 2016, però, hanno portato alla luce un fatto nuovo. Dal 1968, i cattolici avevano sempre votato come la maggioranza degli americani (o, se si vuole, la maggioranza degli americani aveva votato come i cattolici); nel novembre 2016, la maggioranza di loro ha invece votato per il candidato che ha ottenuto meno voti: Donald Trump. Quelle elezioni hanno visto emergere con nettezza una figura sociologicamente in formazione fin dagli anni Sessanta: il cattolico wannabe Wasp, che non è e non può essere Wasp – cioè bianco (white), anglosassone e protestante – per forza di cose, ma che vuole sentirsi a pieno titolo parte dell’élite bianca dominante; quella, appunto, dei Wasp.
Uno dei wannabe Wasp più in vista è il «cervello» dell’elezione di Trump, Steve Bannon, collaboratore un tempo del cardinale Raymond Burke, instancabile oppositore di Bergoglio. I cattolici che hanno votato (e voteranno) per Trump, dissentono dalla linea ufficiale della Chiesa sugli immigrati e sul rapporto con le altre religioni (particolarmente islam ed ebraismo), linea – è bene ricordarlo – che risale non all’elezione di Bergoglio, ma al Concilio Vaticano II. Il loro cattolicesimo è fedele ai «princìpi non negoziabili» (contro l’aborto innanzitutto) resi celebri da Joseph Ratzinger, sui quali trovano terreno comune con la destra protestante. La Chiesa cattolica ha una grande esperienza di complexio oppositorum, secondo la formula di Carl Schmitt: «Pare che non possano darsi opposizioni che essa non riesca ad abbracciare». La dimostrazione più probante risale al 1914-18, quando metà dell’Europa cattolica era in guerra contro l’altra metà, e la Chiesa non solo non si frantumò, ma uscì rafforzata dal conflitto. Anche negli Stati Uniti di oggi deve gestire contrapposizioni virulente al suo interno, benché ovviamente senza comune misura con quelle di cento anni fa. Il rischio, oggi, è che certi wannabe Wasp siano tentati di fare il salto, integrandosi alla nebulosa evangelicale; lo hanno fatto, tra gli altri, il vicepresidente Mike Pence, Mike Pompeo, Neil Gorsuch, primo giudice della Corte Suprema nominato da Trump, e l’ex candidata alla vicepresidenza Sarah Palin. (Da notare che gli altri due giudici nominati da Trump, Brett Kavanaugh e Amy Barrett, sono cattolici di stretta osservanza, il che porta il numero dei fedeli di Roma alla Corte Suprema a sette su nove).
Insomma, se si vuole capire meglio il rapporto tra politica e religione in America, bisogna seguire il comportamento dei cattolici più che degli evangelicali. Anche perché i sentimenti dei cattolici alla Bannon, si sa, trovano terreno fertile anche fuori dagli Stati Uniti.