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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

QQAN20 Dimmi come insulti e ti dirò chi sei

QQAN20

Immaginate un mondo senza insulti. Un mondo in cui le parolacce non esistono, o non possono essere pronunciate. Un mondo liscio e politicamente corretto in cui nessuno viene offeso per il suo aspetto o la sua provenienza geografica, per i suoi difetti o la sua professione. Sarebbe un paradiso, credete? E invece probabilmente finirebbe presto a botte, suggerisce Filippo Domaneschi. Perché le parole violente sono ciò che ci protegge dalla violenza reale. Una extrema ratio, una barriera, in qualche modo uno sfogo: potremmo anche dire una catarsi, proprio come nel teatro antico mettendo in scena una certa condotta si purificava la società. Viva gli insulti, insomma, ai quali il linguista dedica un piccolo libro tanto istruttivo quanto divertente.
Tanto divertente che al lettore viene il sospetto che il primo a divertirsi ad infilare parolacce nella sua dotta trattazione sia innanzitutto lui. Dal tono compassato alla coprolalia il passo è breve, come quando il linguista illustra la dimensione eufemistica della lingua delle mamme, il cosiddetto madrese, nella quale si ricorre a perifrasi attenuative come «sciocchino, maleducato, persona poco simpatica» per sostituire termini osceni (ma evidentemente sempre sulla punta della lingua) come «coglione, stronzo o sacco di merda». Finalmente, col pretesto della scienza, un libro senza censure e tanti utili esempi pratici, più liberatorio di Bukowski. Ma le domande poste da Domaneschi sono molto serie: chi insultiamo e in che modo, come mai lo facciamo, perché non possiamo farne a meno? Qui la linguistica incontra l’etologia, l’antropologia, la sociologia, la psicologia e persino la neurobiologia.
Contrariamente a quello che credono i nostalgici di un immaginario passato educatissimo, gli insulti caratterizzano ogni epoca e ogni civiltà. (A parte forse in Slovenia, dove l’imprecazione tradizionale suona come: «Trecento orsi pelosi!») Il nostro tempo va tuttavia considerato secondo Domaneschi come un’epoca d’oro dell’ingiuria perché le parolacce si sono intrufolate in contesti dai quali erano precedentemente escluse, come la politica, o addirittura in nuovi spazi come i social network. Come si regola, in questo contesto, il proliferare del linguaggio scurrile e la sua potenziale trasformazione in pura e semplice hate speech? Come si evita che quelle espressioni che dovevano avere una funzione catartica portino invece a un’escalation di aggressività mimetica? Bisogna innanzitutto capire come funzionano gli insulti. Per farlo, l’autore si spinge fino a esaminare le aree cerebrali che sarebbero responsabili di questa nostra propensione fin troppo umana, eruzione linguistica delle nostre emozioni più profonde, per poi decostruire le infinite fattispecie dell’insulto, del noninsulto, dello pseudo-insulto fino a quella vera e propria «bomba atomica» rappresentata oggi dall’epiteto razziale con il quale venivano chiamati i neri in America, ormai pronunciabile soltanto dicendo «la parola con la N».
Con la loro carica espressiva, gli insulti ci servono per «fare cose con le parole», insomma ad ottenere un effetto concreto nella vita di tutti i giorni. Ma naturalmente bisogna saperli dosare e padroneggiare secondo il contesto. Grande è il potere dell’insulto, come quello dell’unico anello di J. R. R. Tolkien, col quale si può fare sia il bene che il male, unire oppure dividere, ma che può anche sfuggire al controllo. Era stata Judith Butler, nel lontano 1997, a proporre una riflessione filosofica sulle «parole che provocano» proprio mentre il dibattito pubblico iniziava a essere monopolizzato dalla questione del politicamente corretto. Ma se all’epoca la faccenda poteva ancora prestare a ironie, oggi appare evidente che l’igiene del linguaggio è diventata una posta in gioco centrale per la sopravvivenza della civiltà multiculturale, che sfortunatamente è anche una potente macchina di decontestualizzazione capace di amplificare e trasferire le offese da una comunità all’altra. Domaneschi mostra bene che le parole che provocano sono raramente parolacce pure e semplici, ma più spesso termini di uso comune (ad esempio animali e ortaggi) che assumono un significato denigratorio nel contesto. Capire come funzionano gli insulti, tra le altre cose, ci permette di notare in che modo spesso le offese circolino proprio grazie a chi le denuncia: sono i cosiddetti «insulti di seconda mano». Un fenomeno frequentissimo in rete, aggiungiamo noi, dove (in buona fede un po’ fanatica) vengono condivisi su larga scala tali propositi ingiuriosi di un politico razzista o tale gaffe sessista di uno sconosciuto, con l’effetto collaterale di portare l’ingiuria proprio presso chi la può patire.
Attraverso decine di esempi di parole, frasi e situazioni, dai discorsi di Trump all’Isola dei famosi, da Clint Eastwood a Casa Surace, Filippo Domaneschi disegna una mappa del continente misterioso dell’insulto, con le sue grandi regioni (la scatologia, la sfera sessuale, la differenza culturale, il sacro) e i suoi paradossi. Un continente che sarà bene imparare a conoscere, perché se la prima guerra mondiale venne scatenata da una singola pallottola, non è da escludere che i conflitti del futuro possano nascere da un banale insulto.