Tuttolibri, 3 ottobre 2020
QQAN70 Perché la Gioconda è un rettangolo?
QQAN70
Che viviamo in un mondo dominato dalle immagini è cosa nota. Sono immagini le serie tv, i videogiochi, i dipinti alle mostre, i post su Instagram e, naturalmente, le fotografie, che ormai scattiamo tutti, nessuno escluso.
Eppure, le figure sono un argomento che occupa poco spazio nella cosiddetta cultura generale. Mi spiego: i corsi universitari o privati dedicati alla cultura visiva aumentano di giorno in giorno e i libri sulle immagini senza dubbio abbondano; si tratta, tuttavia, nella maggior parte dei casi, di testi accademici oppure tecnici, magari scritti in punta di penna, ma rivolti a un gruppo ristretto di interessati. Sono convinto, al contrario, che capire le immagini non sia più un argomento tecnico, non oggi che ci troviamo in un’epoca in cui i mezzi di creazione visiva sono disponibili a tutti. Se basta un cellulare per fare una foto, ritoccarla e diffonderla in rete, se anche l’uomo politico preferisce scattarsi un selfie piuttosto che tenere un comizio, allora qualcosa di queste «figure» bisognerà pure cominciare a dirla nel dibattito pubblico.
Ora, però, quando si dice di voler spiegare come funzionano le immagini si finisce quasi sempre per elencarne i significati: si illustrano cioè i «contenuti» di ciò che vediamo. A me interessava un’altra strada: volevo trattare le immagini anzitutto come oggetti, come meccanismi con un funzionamento che precede i significati. Così sono partito da alcuni problemi concreti. Ad esempio: perché, oggi, la quasi totalità delle immagini è rettangolare? Se andiamo in una pinacoteca il novanta percento dei quadri esposti sono rettangoli: e poi è un rettangolo lo schermo del computer, della tv, dello smartphone; sono rettangoli le vignette dei fumetti e i quadri dei videogiochi, quasi tutti i dipinti e tutte le fotografie. Non è casuale. C’è un motivo e c’è un’origine. Ma chi (e quando) ha deciso che le immagini dovessero essere preferibilmente dei rettangoli?
Oppure mi sono chiesto perché in certe epoche si preferissero costruzioni centrate e in altri tempi asimmetriche, accorgendomi che oggi viviamo in un’epoca «diagonale». O ancora: come si è suscitato l’effetto di profondità nei paesaggi? Ho tentato di spiegarlo mettendo in relazione la composizione dei quadri barocchi con i fotogrammi dei film d’azione.
Con l’aiuto della psicologia sperimentale e delle neuroscienze, ho provato poi a raccontare cosa accade nella mente di fronte a un’immagine: a cosa presta attenzione lo sguardo e su cosa si distrae. Secondo uno studio recente i visitatori dei musei dedicano circa venti secondi a ciascuna opera e poi passano avanti. Ma cosa si vede in venti secondi? Bastano venti secondi per capire Botticelli? Alla National Gallery di Londra la cartolina di Van Gogh vende sei volte quello che vende Leonardo: se ormai anche nell’arte esistono indagini di mercato, che conseguenze avrà tutto questo sul nostro futuro culturale? Per arrivare, infine, alla domanda più spinosa: perché alcune immagini finiscono per aver più successo di altre? Perché alcune figure diventano best-seller? Solitamente si risponde con una non-risposta: si dice cioè che sono «capolavori». Non credo sia solo questo.
Ho voluto smontare questi ingranaggi e metterli sotto gli occhi dei lettori; porre quelle domande che sono alla base del sistema delle immagini, ma che quasi mai vengono fatte apertamente. Non a caso le persone che affollano le mostre chiedono alla guida: «Che cosa rappresenta? Che cosa significa? Che cosa simboleggia? Quali erano le intenzioni dell’autore?» Quasi nessuno chiede: «Come funziona?». Riuscite a immaginare una persona che domanda alla guida: «Perché la Gioconda è un rettangolo?». Eppure è un quesito serissimo e avrebbe pure una risposta.
La qualità dei nostri tempi non è, infatti, nei significati ma negli usi: un selfie non è un semplice autoritratto, non è un volto, non è una foto; è prima di tutto uno scatto pensato per essere «usato», cioè condiviso in rete, diffuso, sottoposto al giudizio dei like. Le immagini non sono idee o astrazioni: sono oggetti precisi con un peso, un volume, un certo spazio occupato, un prezzo, un indice di gradimento. Non possiamo spiegare Instagram studiando Instagram: abbiamo bisogno di mettere in relazione il nostro presente con le figure del passato. Per spiegare davvero Instagram abbiamo bisogno del Rinascimento, e viceversa.
È però necessaria una precisazione: non avevo in mente un libro divulgativo, se con questo termine si intende la popolarizzazione di un sapere specialistico. Può esistere divulgazione per la scienza, perché i lettori comuni non frequentano laboratori e esperimenti. Ma le immagini le abbiamo intorno tutti i giorni: un film o una pubblicità non sono esperimenti di laboratorio, stanno lì in salotto, dentro casa nostra. E dunque, se questo libro non è un testo accademico e se non è divulgazione, che cos’è?
Esiste, a dire il vero, una terza via ed è il modello anglosassone: ossia scrivere per un lettore colto e appassionato, ma non specialista. La divulgazione per sua natura annacqua i concetti e banalizza i problemi nel tentativo (peraltro inerte) di parlare a tutti. Ma «tutti» è un’astrazione, oppure è una buona utopia per la televisione. Quando si tratta di libri e di lettori non esistono i «tutti», per questa ragione quando si scrive ci si figura un lettore ideale. Nel mio caso ho scelto una persona vera, un amico di infanzia economista in una istituzione internazionale: non si occupa né di immagini né di arte. Ogni volta che mi trovavo di fronte a un passaggio delicato mi dicevo: «immaginiamo di raccontarlo a lui». Se le immagini sono così importanti devo essere capace di spiegarglielo.
Quando ho cominciato a scrivere mi sono però reso conto che la tradizionale forma del saggio non mi avrebbe aiutato. Mi è capitato negli ultimi anni di tenere molte conferenze e talk su questi argomenti, eventi in cui si parla a braccio, commentando un numero ampio di figure. Mi sono chiesto se fosse possibile tenere quella immediatezza nella pagina scritta. Il mio mestiere principale è la grafica: da vent’anni mi occupo di dare forma ai libri degli altri. E dalla grafica bisognava partire: dalla forma che avrebbe avuto il libro. Perciò da una parte guardavo ai fondatori del racconto visuale moderno: Gombrich, Arnheim e soprattutto Berger (il suo Ways of seeing è un modello evidente); dall’altra avevo in testa Munari, Mari, Massin, cioè quei grafici-scrittori che ben prima del personal computer si impaginavano i libri da sé. Così, anziché scrivere un lungo testo e poi riversarlo nell’impaginato aggiungendo le immagini alla fine, ho cominciato a scrivere direttamente nella gabbia di pagina. Sembra un dettaglio tecnico, non lo è: scrivendo dentro il layout grafico – con i suoi ingombri, spazi, carattere e interlinea –, si può modulare il respiro della frase e inserire le immagini esattamente nel punto in cui vengono evocate. Nella maggior parte dei libri illustrati e di storia dell’arte le illustrazioni finiscono in prossimità del testo ma non nel punto giusto; io volevo invece che testo e immagini fossero consustanziali a un unico flusso di pensiero, con la stessa rapidità di quando, durante un talk, si dice «guardate questo» e quel «questo» compare di fronte agli occhi degli spettatori. Non a caso il libro abbonda di aggettivi dimostrativi, una cadenza che parrebbe fuori luogo in un testo tradizionale.
Ci si chiede spesso in che modo la lettura digitale stia cambiando le nostre abitudini di lettori, ecco: Figure prova a tenere conto dell’abitudine a guardare immagini e parole insieme, tipica dei social. Forse è un metalibro: spiega la macchina delle immagini, ma è esso stesso parte di quella macchina.