Tuttolibri, 3 ottobre 2020
Anticipazione dal saggio ecologista di Jonathan Franzen
(Un brano dall’introduzione di “E se smettessimo di Fingere” di Jonathan Franzen, Einaudi, pp 42, 10 euro)
Il 3 giugno 2019, cinque mesi dopo la fine dell’anno più arido mai registrato a Berlino e cinque mesi prima che gli Stati Uniti cominciassero a ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima, sono partito da Berlino per raggiungere la cittadina di Jüterbog insieme al mio amico Andreas Meissner, il direttore della Stiftung Naturlandschaften del Brandeburgo. Era una giornata caldissima, e io e Andreas ci siamo fermati in città per un pranzo tardivo prima di avventurarci nel cuore della riserva della Stiftung intorno a Jüterbog – uno splendido tratto di rigenerante foresta che ospita lupi, lontre e parecchi uccelli nidificanti rari nella Germania settentrionale, come il succiacapre e l’upupa.
Era nostra intenzione trascorrere il tardo pomeriggio e la sera facendo birdwatching. Mentre entravamo nella riserva, lungo una pista di sabbia, abbiamo visto una minacciosa colonna di fumo levarsi dalle conifere davanti a noi. Andreas ha fatto una telefonata e ha scoperto che due camion dei pompieri erano già arrivati sul posto. Abbiamo proseguito in fretta, fino a raggiungere un’ampia striscia di terra che i gestori della riserva avevano disboscato come barriera tagliafuoco. La temperatura dell’aria sfiorava i quaranta gradi. Un forte vento secco soffiava da sud, spingendo l’incendio dritto verso i camion dei pompieri, che si erano fermati sul lato settentrionale della barriera.
Io e Andreas, unendoci a loro, siamo rimasti a guardare le volute di fumo nero che venivano verso di noi. Più in là, nella foresta, gli alberi esplodevano tra le fiamme, con i rami che da verdi diventavano completamente arancioni in un batter d’occhio. Nell’ultimo istante prima che il fuoco raggiungesse la barriera, ho visto una tottavilla sfrecciare fuori dal bosco e virare verso la radura, molto probabilmente abbandonando il nido. Il fumo e il calore erano intensi, ma la cosa più spaventosa era la velocità con cui si muoveva il fuoco. Mentre io, Andreas e i pompieri ci ritiravamo in un punto di osservazione più sicuro, le fiamme hanno saltato la barriera e invaso la pineta, avanzando verso nord. Nella Germania settentrionale sono rimaste pochissime foreste selvagge. Quando l’incendio di Jüterbog è stato contenuto e spento, sei torridi giorni più tardi, erano ormai bruciati quasi 750 ettari. Ero andato a Berlino per parlare di cambiamento climatico e conservazione – per sostenere che non dovremmo preoccuparci per il clima fino al punto di trascurare l’altrettanto acuta crisi globale di biodiversità – ma l’inferno a cui avevo assistito aveva complicato la mia posizione. Anche se l’incendio non poteva venire attribuito con certezza al cambiamento climatico, la grave siccità del 2018 e la torrida estate del 2019 in Germania erano chiari presagi di catastrofi a venire.
Sapevo già che il nostro futuro non promette nulla di buono, ma solo quando ho visto quegli alberi esplodere tra le fiamme, e ho assistito all’impotenza dei pompieri e dei gestori della riserva davanti alle forze della natura scatenate, ho avvertito anche emotivamente la rapidità con cui quelle catastrofi si stanno avvicinando. L’immagine che mi è rimasta in testa è proprio quella velocità. Tornato a casa, in California, dove il problema degli incendi è molto più grave che in Germania, ho capito che dovevo riprovare a scrivere del cambiamento climatico. Con l’immagine della velocità del fuoco ancora fresca nella mente, dovevo venire a patti con la possibilità che l’apocalisse climatica si verificasse nel corso della mia vita. Negli ultimi anni avevo scritto e parlato più volte dell’argomento, con la sensazione che il mio messaggio non venisse compreso, e volevo produrre un breve compendio di quel messaggio, reso necessariamente più fosco da ciò che avevo visto a Jüterbog.
Il cambiamento climatico era nei miei pensieri da trent’anni. Nel 1992 avevo seguito la conferenza di un paio di fisiologi vegetali che speravano di ricostruire in laboratorio la molecola della clorofilla e innestarla geneticamente nelle colture alimentari, per aumentare l’efficienza della fotosintesi e rendere le colture più resistenti alla siccità, e nel corso della conferenza i due scienziati avevano narrato una lunga e avvincente storia del carbonio nell’atmosfera terrestre. Alcuni anni dopo presi in prestito e ripetei quella storia in un romanzo, Le correzioni, e mi divertii a spaventare i miei amici newyorkesi con minacciosi discorsi sul riscaldamento globale, ma fu solo quando mi innamorai degli uccelli che cominciai a pensarci più intensamente.
Il problema, per me, era in parte che le popolazioni di uccelli selvatici avrebbero probabilmente sofferto con il riscaldarsi del pianeta. Ma quando cominciai a impegnarmi direttamente per la salvaguardia degli uccelli divenni consapevole di un altro tipo di problema: il movimento ambientalista, che in precedenza difendeva animali e piante selvatici e si batteva per preservare i loro habitat, era stato quasi completamente fagocitato dalla questione del cambiamento climatico. Ormai i maggiori gruppi ambientalisti dedicavano gran parte delle loro energie e risorse a quell’unica questione, sostenendo che «se non fermiamo il cambiamento climatico, nient’altro avrà più importanza». L’insistenza su quel tema aveva senso negli anni Novanta, quando sembrava possibile che il mondo prendesse misure collettive per ridurre le emissioni di CO2. Nel 2015, tuttavia, mi era ormai chiaro che le misure collettive erano fallite e avrebbero continuato a fallire. Nel frattempo, quel che restava del mondo naturale era più che mai in difficoltà, dato che ogni nazione perseguiva la crescita economica a spese della natura, e io mi sentivo frustrato, come appassionato di uccelli, dal fatto che il pubblico discorso sull’ambiente continuasse a essere dominato dal clima. Poiché quel discorso mi sembrava sempre più futile, ritenevo che dovessimo prestare più attenzione al mondo della natura, dove si potevano ancora prendere misure di conservazione significative ed efficaci.
L’articolo che scrissi su quel tema, pubblicato dal New Yorker, venne accolto con un profluvio di pubblica ostilità da parte dell’establishment climatico e con un rivolo di gratitudine da parte degli ambientalisti. La gratitudine mi rincuorò, ma finii per pensare di essermi attirato l’ostilità perché avevo usato un tono piuttosto polemico. E così, nel 2017, scrissi un altro articolo sullo stesso tema, con un approccio più benevolo e ironico, che venne pubblicato dal Guardian. Stavolta le reazioni sembrarono meno veementi, forse perché l’articolo venne letto da meno persone, ma alla fine mi procurò ugualmente un severo rimprovero pubblico da parte dell’attivista climatico americano Bill McKibben.
Poteva essere una buona occasione per decidere di limitarmi a scrivere letteratura e smettere di pubblicare articoli sul clima che facevano arrabbiare la gente, ma la mia esperienza con l’incendio di Jüterbog è coincisa con l’inizio della stagione della campagna presidenziale negli Usa (una stagione che dura da quasi due anni) e con un aumento dell’attivismo climatico in Europa. Alla mia vecchia frustrazione – per il fatto che tuttora non si parlava della crisi della biodiversità – se ne aggiungeva una nuova, nel sentire i politici statunitensi e gli attivisti europei continuare ancora a ripetere, quando ormai gli incendi apocalittici erano cominciati, le solite vecchie insulsaggini. Abbiamo ancora dieci anni. Mettiamoci al lavoro per salvare il pianeta. Il breve articolo che ho scritto, ora ripubblicato in questo libro, non era inteso come una polemica. Volevo parlare dal cuore e cercare di rispondere, con calma, ad alcune delle domande che mi erano state rivolte sugli articoli precedenti: stai dicendo che dovremmo semplicemente rinunciare a combattere il cambiamento climatico? Una mitigazione modesta non è preferibile a nessuna mitigazione? Non è politicamente controproducente togliere speranza alle persone?
Mi sembrava che, vista la gravità della situazione, il problema della speranza fosse decisivo – una versione globale del problema di mantenere la speranza di fronte alla mortalità individuale – e che un’autentica speranza necessitasse di sincerità e amore. Di sincerità perché la speranza è un investimento come qualunque altro, che è meglio compiere con gli occhi bene aperti. E di amore perché, senza amore, non c’è nessuna speranza che valga la pena di coltivare. Quando l’articolo è uscito, di nuovo sul New Yorker, ho capito che avrei anche potuto scrivere una polemica e il risultato sarebbe stato identico. La reazione dell’establishment climatico, soprattutto sui social network, è stata ferocemente negativa.
In un certo senso me l’ero andata a cercare, insinuando che i membri di quell’establishment siano impegnati, a modo loro, a negare la realtà. Certo non avrei potuto chiedere una migliore dimostrazione della forza psicologica di quella negazione. Giornalisti scientifici infuriati hanno dichiarato che il mio articolo diceva cose che palesemente non aveva detto, o ne ometteva altre che aveva palesemente incluso. Ma, visto come funzionano i social network, la maggior parte dei giudizi era ancora più primitiva. Non importava nemmeno cosa avevo detto. Per rigettare l’articolo bastava sapere che era stato scritto da un maschio bianco privilegiato. Oppure, se chi lo leggeva era uno scienziato del clima, che non era stato scritto da uno scienziato. La reazione dei social network avrebbe potuto deprimermi anche più della nostra distruzione del pianeta – le mie speranze sono affidate non alla nostra capacità di evitare la catastrofe climatica, ma a quella di affrontarla in modo ragionevole e umano – se non avessi ricevuto, attraverso altri canali, una straordinaria quantità di ringraziamenti e conferme.
A quanto pare sono molte le persone che, se non hanno un interesse professionale o politico nell’attivismo, condividono il mio modo di pensare sul clima. Molte sono sconcertate dall’erosione del discorso pubblico e spazientite per le promesse obsolete di politici e attivisti, vogliono dare un senso alla nostra situazione disperata e cercano un modo per coltivare una qualche speranza. Queste persone danno speranza a me, ed è a loro che dedico questo piccolo libro.
(Santa Cruz, 6 novembre 2019).