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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

QQAN64 Intervista a Robert Macfarlane

QQAN64

Difficile da credere, ma Robert Macfarlane, 44 anni, uno degli scrittori di viaggio più famosi al mondo, si definisce un homebody, cioè uno che preferisce stare a casa piuttosto che uscire. Dal Bukinghamshire, mi racconta di un lockdown difficile, problemi di salute in famiglia, ma almeno è riuscito ad andare a correre e a scrivere un album («solo i testi») con l’amico musicista (e attore, qualcuno lo ricorderà nella serie Lovesick) Johnny Flynn: «Molte canzoni parlano di sottosuolo, era un progetto sull’epopea di Gilgamesh». Il suo bagaglio, però, è sempre pronto: per l’ultimo libro, Underland, è partito dall’Inghilterra (Somerset, Yorkshire, Londra), ha attraversato la Manica (Parigi), le Alpi (Carso triestino) per finire al Nord (Norvegia, Groenlandia e Finlandia), e tutto per scavare in quello che si nasconde sotto ai nostri piedi, Alice in un paese delle meraviglie fatto di calcite, calcare, permafrost, reti micotiche, tunnel, microrganismi.
Quando è iniziato il suo amore per le escursioni?
«Mio nonno era un alpinista. Era cresciuto in Svizzera, faceva il diplomatico e, ovunque andasse nel mondo, camminava e scalava. Nella nostra famiglia è stato come un effetto a cascata».
Come sceglie le tappe dei suoi viaggi?
«Quando incomincio a scrivere un libro non so mai dove andrò a finire. A questo ho lavorato per sette anni. All’inizio pensavo che sarebbe stato un libro sul passato, poi è stato il futuro ad afferrarmi. È diventato un testo sull’Antropocene, come chiamano l’era che stiamo vivendo e che per millenni porterà l’impronta dell’essere umano. E poiché la superficie terrestre sta cambiando proprio a partire dallo scioglimento dei ghiacci, ho sentito che dovevo andare verso nord».
Nel 1974, in "Specie di spazi" Georges Perec sosteneva la necessità di "vedere più piattamente". Lei, invece, dice il contrario: abbiamo bisogno di andare in profondità.
«Intendo la profondità secondo due accezioni. La prima ha a che vedere con il tipo di tempo che stiamo vivendo, che è un tempo profondo. Abbiamo ereditato un pianeta che ha 4,6 miliardi di anni e quello che lasceremo noi, oggi, durerà per altri milioni di anni: siamo una specie che è sprofondata nel tempo, quello passato ma soprattutto quello futuro. Per questo la domanda essenziale e politica di questo libro è: siamo dei buoni antenati? La seconda accezione è più letteraria: conosciamo davvero pochissimo di quello che sta sotto di noi».
Perché sappiamo molto di più di ciò che accade nel cosmo, e non abbiamo idea di cosa ci sia due metri sotto ai nostri piedi? Una specie di paura?
«In parte sì: associamo il sottosuolo alla morte, alla malattia, ma come cerco di spiegare nel libro è anche un luogo di visione e creatività. Poi c’è il fatto, inalienabile, che la luce non penetra nel suolo perciò ci è impossibile vedere. Per questo, quando iniziamo a indagare, si spalancano meraviglie. Come con il wood wide web».
Quella è la mia parte preferita: una specie di "sistema cooperativo" sotterraneo grazie al quale gli alberi di una foresta comunicano tra di loro servendosi di una rete fungina. Sembra incredibile.
«Vero? Quando lo sai, non puoi più camminare in un bosco come facevi prima. C’è anche un’altra cosa straordinaria che non ho scritto nel libro: i biologi hanno da poco scoperto l’esistenza di un tipo di vita microbica sconosciuta a circa 10-15 chilometri sotto la crosta terrestre. L’hanno chiamata "materia oscura biologica" e pare che la sua biomassa sia più grande di quella umana».
È vero che ha iniziato a scrivere di paesaggio e animo umano per risolvere un suo "mistero personale"?
«Sì, il mistero per cui, da ragazzo, sarei stato pronto a morire per una montagna. A 19 anni mi arrampicavo con le corde, non ero molto bravo, ma ero spericolato, accoppiata pessima. Quando ho iniziato a perdere degli amici, ho capito che quella della montagna, e dei ghiacci e delle rocce, è una specie di religione. È allora che ho iniziato a scrivere il mio primo libro, Montagna della mente».
Lei è credente?
«No. Direi che sono affascinato da certe passioni molto intense, che io chiamo spiritualità».
Andando verso l’alto o verso il basso, gli umani cercano cose differenti?
«Mi ha sempre colpito quanto l’amore per le vette sia, in realtà, molto giovane: risale a circa 250 anni fa, quando il Romanticismo e la maggiore ricchezza economica hanno reso desiderabile, e possibile, scalare le montagne. Ma andare giù nell’oscurità è una cosa antichissima: l’Homo naledi, nostro lontanissimo antenato, aveva l’usanza di seppellire i morti già 300mila anni fa e le prime testimonianze di arte rupestre nelle grotte hanno 64mila anni».
Che cosa cerchiamo, quindi?
«Parlando con uno dei fisici che si occupa di materia oscura ho capito che quello che cerchiamo di scoprire è la nostra enorme ignoranza. Solo il 5 per cento della massa dell’universo è composto da materia che possiamo vedere e toccare. Nonostante questo siamo una specie molto arrogante, perciò è bene che ci venga ricordato che non sappiamo quasi nulla».
Lei insegna Environmental Humanities a Cambridge, un’area di studi che comprende discipline umanistiche, scienze sociali e ambientali. Come si è costruito un background scientifico?
«Non ho una vera educazione scientifica, ma amo parlare e ascoltare le persone. Soprattutto, amo ascoltare gli scienziati perché trovo che nel loro linguaggio ci sia molta poesia. Credo inoltre che siano coinvolti nello stesso tipo di ricerca di artisti e poeti, cioè quella di dare una forma all’oscurità».
Cita spesso la poesia nel suo libro.
«Leggo e scrivo poesie da quando ero ragazzo. Iniziando a scrivere prosa, ho deciso di volere mantenere ciò che amavo della poesia. Il ritmo, per esempio, mi ossessiona: ogni volta che finisco di scrivere un libro lo leggo sempre ad alta voce, per lavorare sul ritmo delle frasi. Un giorno chiesero a Coleridge perché andasse alle conferenze della Royal Society of Chemistry e lui rispose: "Per aumentare la mia riserva di metafore". La scienza è una metafora ben organizzata. C’è una precisione nel linguaggio scientifico che è una forma di lirismo, un’esattezza nel tentativo, e nell’inevitabile fallimento, di dare un nome anche ai più piccoli aspetti del mondo».
"Underland" è uscito nel Regno Unito nel 2019: un libro su che cosa si prova a essere rinchiusi ben prima della pandemia. La parola "claustrofobia" vi appare molte volte.
«La claustrofobia è un effetto dell’Antropocene, in qualche modo sappiamo che il nostro tempo sta finendo. Mi affascina anche come riesca a muoversi tramite il linguaggio: quando leggevo determinati passaggi di Underland, soprattutto quelli sui sotterranei di Parigi, vedevo che alcuni iniziavano a muoversi come se si sentissero a disagio, intrappolati. Per uno scrittore è interessante riuscire a controllare i corpi dei lettori e non soltanto le menti».
Si definirebbe un attivista?
«No, e credo sia una parola abusata. Sono uno che porta avanti delle campagne».
Perché i partiti ambientalisti in Europa non hanno successo?
«Il "green thinking" lavora su una prospettiva molto più lunga rispetto a quella dei populismi. In particolare ora che viviamo di settimana in settimana è dura riuscire a pensare a quello che sarà tra 5 o 10 anni. La pandemia costerà al mondo almeno 10 o 20 anni in termini di biodiversità e clima, e questo è un disastro».
Mi tolga un’ultima curiosità: è bravo a fare le valigie?
«In realtà no, le riempio sempre troppo! Una cosa che non dimentico mai è una scorta di peperoncini rossi. Ne vado matto e quando, durante un’escursione, mi sento giù di energie ne mangio uno. Mi hanno sempre tirato su».