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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

1QQAFM10 La Fenice è bruciata per pagare la biemmevù

1QQAFM10

La maledizione di Giorgio Falco è anche la sua forza. Quasi tutti i suoi soffrono dello squilibrio di essere più libri in uno. Per esempio quello che nel 2014 lo ha fatto conoscere, La gemella H, era un «romanzo storico»: sulle colpe della Germania che negli anni Cinquanta «invade» turisticamente la Riviera Romagnola come, solo pochi anni prima, aveva invaso tutto un Continente. Ma includeva in sé anche un pamphlet sull’anonimato sotto il totalitarismo, emblematizzato dall’«uomo di Lenhart»: la figura senza volto, cioè, che campeggia sui cartelloni anni Venti e Trenta del grande grafico Franz Lenhart. Testo altrettanto avvincente che a fatica si legava, però, alla straordinaria intonazione della Gemella H. Ma proprio quest’ambizione sottrae Falco alla prevedibilità dei libri-a-temino cui da un pezzo s’è ridotta la nostra narrativa senza qualità.
In apparenza Flashover è una tipica non-fiction, che fissa un istante scelto come anello che non tiene, nel tempo fuori sesto che è il nostro tempo. È la notte del 29 gennaio 1996 quando va in fiamme un edificio storico dal nome jettatorio, il teatro La Fenice di Venezia. Storia emblematica, certo (l’incendio è appiccato dal titolare di una ditta in ritardo nei restauri del teatro: minimo imprenditore di se stesso perseguitato dalle rate del biemmevù che pare uscito dalle allegorie lancinanti dell’Ubicazione del bene: quello del 2009 che di Falco resta il capolavoro). Una notte, si diceva; ma quelli messi a fuoco, è il caso di dire, sono cinque minuti, in cui si produce il fenomeno che al libro dà il suo bel titolo: il momento di «sviluppo completo dell’incendio», quando «ogni cosa si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco».
Quello della Fenice, infatti, è il lampo che incendia e illumina quanto prima fermentava oscuro; come diceva Walter Benjamin, solo quando va in fiamme una casa rivela la sua architettura. Quello andato in fumo, in quel flash rivelatorio, è il micro-capitalismo nordestino cresciuto a dismisura ma su piedi d’argilla: figura di un macro-capitalismo che un decennio dopo andrà a sua volta in fiamme, su scala gigante ma non dissimilmente. Lasciandoci le ceneri sulle quali con infinita fatica, da un altro decennio, l’Occidente prova a riedificarsi; se non a miticamente rinascere.
Se si fermasse qui, però, non sarebbe Giorgio Falco. Sua movenza tipica è quella di chi, giunto al punto, aggiunge una virgola; e scarta come un cavallo di razza. Questi piccoli Erostrati di provincia lo sgarro non lo fanno a un luogo qualsiasi, ma a una città-capolavoro che opprime e spaventa. E Falco s’interroga, allora, su cosa significhi vivere all’ombra di una bellezza che non ci appartiene, e alla quale non apparteniamo. Una bellezza che non ci riguarda: e che allora cancelliamo, psichicamente e socialmente, se non – come in questo caso – materialmente. Non a caso rilegge Il padiglione d’oro di Yukio Mishima, capolavoro del ’56 a sua volta ispirato a un fatto di cronaca. E cita un episodio-chiave del suo regista feticcio, il piano-sequenza circolare di Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni: in quei tre minuti perfetti si consumerebbe la sequenza-tipo in cui il capitale segmenta la nostra esistenza (tema che ossessiona Falco sin dall’esordio di Pausa caffè, 2004). Ma c’è un altro episodio di Antonioni che dà forma memorabile a questo sentimento: quando nell’Avventura Sandro(cioè Gabriele Ferzetti, ad altro riguardo evocato), architetto senza qualità, davanti al Duomo di Noto si avvicina annoiato al foglio sul quale un giovane è intento a copiare a china, devoto, quelle meraviglie; e come per errore ci versa sopra l’inchiostro. Sandro odia insieme la bellezza e la giovinezza di chi, per essa, ancora sa incendiarsi.
Ma Flashover è ancora altro, come dimostrano le enigmatiche fotografie (opera di Sabrina Ragucci, da sempre di Falco compagna e complice) che, non sempre congrue, lo punteggiano: nelle quali l’autore è mis à nu, ma col volto coperto da una maschera. Un uomo senza volto, incendiato dalla bellezza spietata di un Rothko, figura anche in copertina. E infatti Flashover è altresì un’interrogazione radicale su cosa sia, davvero, un personaggio. Si pensa ancora a Mishima, alle Confessioni di una maschera. Ma mentre quella, esistenzialisticamente, era la vita sociale falsa sovrapposta a quella inconfessabile, in Falco la maschera è segno post-sociale, per non dire post-umano, di un’alienazione radicale che cancella qualsiasi identità. Un’alienazione che viene da lontano: se suo primo avatar è «l’uomo di Lenhart». Oggi che si risente quell’odore inconfondibile, di fumo che promette incendi, da ogni parte sedicenti storici si applicano con zelo al compitino di spiegarci quanto sia diverso, l’oggi, dal fascismo di allora brutto e cattivo. Ma sotto quella maschera ce n’era un altro; e quello, ci dice Falco in ogni suo libro, non è mai finito.