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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

1QQAN40 1QQAFM13 La biografia di Dante scritta da Alessandro Barbero

L’11 giugno 1289, due eserciti erano schierati uno di fronte all’altro nella piana di Campaldino, sotto il castello di Poppi: i fiorentini con i loro alleati guelfi, e gli aretini con i loro alleati ghibellini. Quando videro che il nemico li attendeva in lontananza, i capitani fiorentini si riunirono per decidere cosa fare; e cioè, in sostanza: attacchiamo noi, o aspettiamo che attacchino loro? Nel dubbio, decisero di aspettare; a cose fatte, si disse che era stata una decisione ben ponderata, nella convinzione che avrebbe vinto chi teneva duro più a lungo.
Intanto gli uomini aspettavano sotto il sole. I fanti, armati più alla leggera, potevano sedersi, e attingere alla zucca piena di vino che portavano alla cintura. I cavalieri potevano magari smontare, ma non era prudente allontanarsi dai cavalli, e la maggior parte di loro saranno rimasti in sella; non avevano ancora addosso le articolate armature in piastra d’acciaio che i fabbri europei impareranno a produrre solo nel secolo successivo, ma una volta indossata la cotta di maglia di ferro, pesante quindici o venti chili, era impossibile togliersela fino alla fine dello scontro; solo il grande elmo, caldo e soffocante, poteva restare fino all’ultimo momento affidato a un servitore, insieme alla lancia, allo scudo, e per i più ricchi a un cavallo di riserva.
Fra quei cavalieri, e anzi fra i feditori schierati in prima fila, c’era Dante. Questo sta scritto in tutti i manuali di letteratura, ma come facciamo a saperlo? Il primo a raccontarlo è l’umanista Leonardo Bruni, che nel 1436, già anziano, scrisse una Vita di Dante. Il ricordo di Campaldino era ancora vivo, perché quella giornata aveva contribuito in modo decisivo all’egemonia di Firenze in Toscana; e che Dante avesse combattuto lì, per Bruni era qualcosa di più d’un dato biografico. E infatti ci torna con insistenza; non senza un certo disagio, perché Bruni era di Arezzo, e la sconfitta degli aretini un po’ ancora gli bruciava, ma comunque con la convinzione che quella era una pagina importantissima della vita di Dante. La partecipazione alla battaglia serve al Bruni a dimostrare che Dante, nonostante l’enorme impegno negli studi, non viveva fuori dal mondo, anzi era un giovane come tutti gli altri – ed essere giovane significava anche andare in guerra quando la patria lo richiedeva.
A sceglierlo per far parte dei feditori fu molto probabilmente messer Vieri de’ Cerchi, capitano per il sesto di Porta San Piero, vicino di casa degli Alighieri e futuro capo della Parte Bianca. Ma il Bruni, come faceva a saperlo? L’aveva letto, dice, in una lettera di Dante: «questa battaglia racconta Dante in una sua epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia». Quest’ultima annotazione si riferisce a uno schizzo? Qualcuno intende in questo senso, dato che altrove il Bruni assicura che Dante «di sua mano egregiamente disegnava», e lo stesso Dante nella Vita nuova rievoca un’occasione in cui, dopo la morte di Beatrice, «io, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette», ma è più probabile che si trattasse semplicemente d’un passo in cui Dante descriveva la battaglia. L’epistola noi non l’abbiamo più, ma possiamo certamente credere al Bruni, il quale conosceva diverse lettere autografe di Dante, e ne descrive perfino la calligrafia («ed era la lettera sua magra e lunga e molto corretta, secondo io ho veduto in alcune epistole di sua mano propria scritte»).
I dantisti, ignari di come si combattesse davvero una battaglia medievale, hanno per lo più immaginato che i feditori fossero una specie di cavalleria leggera, incaricata di aprire il combattimento con schermaglie; si tratta di una fantasia del tutto fuorviante. Prima di cominciare una battaglia, i comandanti assegnavano compiti specifici a singoli contingenti di cavalieri, designati sul momento; a Campaldino fu il caso tanto dei 150 feditori mandati in prima linea, quanto di 200 cavalieri, al comando di Corso Donati, incaricati di tenersi in riserva. Questi diversi compiti non implicavano un diverso armamento o una specializzazione qualsiasi: i cavalieri erano armati tutti allo stesso modo. Le norme che regolavano gli obblighi militari dei cittadini fissavano dettagliatamente l’equipaggiamento, uguale per tutti, di cui ciascun cavaliere doveva essere fornito, sotto pena di gravi multe; una differenza di qualità e di prezzo era ammissibile, anzi normale, solo per quanto riguardava il valore del cavallo.
Proprio per questo non appare sostenibile l’ipotesi, avanzata di recente, che Bruni abbia inventato il particolare di Dante impegnato «nella prima schiera», in quanto il poeta non avrebbe avuto mezzi sufficienti per possedere armi e cavalli adeguati a quella posizione di prestigio. Dante era profondamente interessato e personalmente coinvolto nella cavalleria, intesa come attività militare e sportiva d’élite, e nelle sue opere abbondano le immagini tratte da quel mondo: quando spiega che tutti gli artigiani impegnati in uno stesso ambito devono prendere istruzioni dall’utilizzatore finale, il primo esempio che gli viene in mente è che «al cavaliere dee credere lo spadaio, lo frenaio, lo sellaio, lo scudaio, e tutti quelli mestieri che a l’arte di cavalleria sono ordinati». Che avesse dei buoni cavalli è più che sicuro, se pensiamo a quel passo del Convivio in cui ripercorre l’evoluzione dei desideri umani, dall’infanzia all’adolescenza, in termini che anche se non fossero direttamente autobiografici, riflettono però l’esperienza della sua generazione e del suo ambiente sociale: «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo, e poi una donna».
Dunque Dante combatté davvero a Campaldino, e si portò dietro per tutta la vita il ricordo di quella campagna, che rievoca anche nella Commedia. Ma perché partiamo proprio da quella giornata memorabile? Il fatto è che per raccontare chi era Dante bisogna porre innanzitutto il problema, fondamentale, della sua posizione sociale. Ora, se quell’esercito che si schierava sulla piana di Campaldino fosse stato un esercito straniero, poniamo francese o tedesco, vedere quel giovanotto che si armava, aiutato senza dubbio da uno o due servitori; che indossava la cotta di maglia, cingeva la spada, e saliva a cavallo, pronto a calcarsi in testa il grande elmo, e infilare al braccio sinistro lo scudo con i colori della sua famiglia, sarebbe stato più che sufficiente per identificare con sicurezza la sua condizione. Fuori d’Italia, quelli che combattevano a cavallo erano tutti nobili, cioè membri di famiglie che si trasmettevano di padre in figlio la terra, i contadini, il potere di comando, e l’ideologia cavalleresca del coraggio, del cameratismo e della fedeltà.
Tutt’al più si poteva restare in dubbio se il giovanotto fosse un membro della cerchia ancor più ristretta dei principi e dei padroni dei castelli, quelli che in Francia chiamavano «i ricchi», li riche home, tutti imparentati fra loro; oppure un cavaliere al loro servizio. Il dubbio, comunque, si sarebbe risolto presto, perché i veri ricchi avevano cavalli più costosi, i cui prezzi erano paragonabili a quelli di un’automobile di lusso, e portavano attaccata alla lancia una bandiera, come punto di riferimento, in battaglia, peri loro dipendenti. Ma gli uni e gli altri erano tutti cavalieri addobbati, con un rituale che la legge riservava, o si sforzava di riservare, ai nobili; e quindi erano tutti signori, domini, o almeno «piccoli signori», domicelli, come si era cominciato a chiamarli, da quando i costi impossibili della cerimonia di addobbamento impedivano a molti padri di famiglia di armare cavalieri tutti i propri figli.
Ma in Italia le cose erano più complicate. Certo, anche nei comuni italiani la popolazione si divideva fra quelli che combattevano a cavallo, i milites, e tutti gli altri, che combattevano a piedi, i pedites. E anche in Italia l’addobbamento cavalleresco garantiva ammirazione, rispetto e privilegi, fra cui appunto il diritto a essere chiamato dominus, in volgare messere, che nelle nostre fiction è usato a sproposito come se fosse un appellativo universale, e che invece era riservato ai cavalieri, ai dottori in legge e ai dignitari ecclesiastici: per cui a Firenze, dove lo conoscevano, nessuno si sarebbe rivolto a Dante chiamandolo «messer Dante» come fa, in una novella del Sacchetti, un genovese, sbalordito dalla sua fama di poeta.
Ma in Italia non c’era un re a imporre per legge che la cavalleria fosse riservata ai membri di certe famiglie, creando così una nobiltà giuridicamente chiusa. A Firenze chiunque appartenesse a una famiglia ricca e fosse disposto a spendere molto poteva pagarsi l’addobbamento, e diventare un cavaliere a pieno titolo: un «cavaliere di corredo», come si diceva. D’altra parte, chi, pur avendo i soldi, non aveva nessuna intenzione di spenderli in quel modo, poteva però vedersi costretto dal comune a fornire un cavallo da guerra, e a quel punto di solito preferiva montarlo personalmente: erano quei «cittadini con cavallate» fra i quali quel giorno c’era anche Dante. Erano armati e montati allo stesso modo degli altri, e collettivamente anche loro, nelle fonti, erano chiamati cavalieri o milites, anche se tutti sapevano che i cavalieri veri, in guerra, valevano un po’ di più, se non altro perché si identificavano più pienamente nel ruolo e disponevano di solito dei migliori destrieri.
E dunque vedere Dante che monta a cavallo e si cala l’elmo sulla testa prima di imbracciare la lancia e allinearsi con gli altri cavalieri della prima schiera, nel momento angoscioso in cui ci si rende conto che il nemico sta venendo avanti e che fra pochi minuti avverrà l’urto, ci dice, sì, che apparteneva allo strato superiore della società cittadina, ma non ci dice se fosse nobile: perché nei comuni italiani, diversamente da quello che accadeva nelle campagne di Francia o di Germania, tutti quelli che avevano i soldi combattevano come cavalieri, anche se i soldi li avevano fatti da poco. II fatto che Dante sia stato scelto come uno dei centocinquanta «feditori de’ migliori dell’oste» ci dice che era bene armato, e aveva un buon cavallo, e dunque era abbastanza ricco, oltre che giovane, robusto e allenato; ma continuiamo a non sapere se la sua famiglia era gentile, e dunque ricca e potente da generazioni, o se era venuta su da poco.
A questo proposito c’è un particolare che non andrà trascurato. Fra i preparativi della battaglia ci fu anche l’addobbamento, da parte dei capitani, di un certo numero di giovani che vennero armati cavalieri sul campo. Era un espediente onorevole per rimandare le spese tradizionalmente connesse all’addobbamento, e soprattutto per conferire maggiore aggressività all’esercito cittadino, perché si dava per scontato che questi «cavalieri novelli» avrebbero fatto di tutto per non sfigurare. Lo sapeva bene anche Dante, il quale osserva che chi è armato cavaliere non sopporta che quel giorno passi senza aver fatto qualcosa di eccezionale. Il cronista Dino Compagni stabilisce un nesso automatico fra questa procedura e il fatto che il combattimento, quel giorno, fu particolarmente ostinato: «La battaglia fu molto aspra e dura: cavalieri novelli vi s’erano fatti dall’una parte e dall’altra». Possiamo dare per scontato che quei «cavalieri novelli» appartenessero alle famiglie più importanti, quelle nelle cui file c’erano già dei cavalieri, e che al ritorno non avrebbero avuto difficoltà a sostenere economicamente il nuovo rango. Dante, però, non fu tra i prescelti. Se fosse stato armato cavaliere quel mattino, il suo destino sarebbe cambiato; e noi, forse, non avremmo la Commedia.