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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

Biografia di Riccardo Muti raccontata da lui medesimo

Come in un insolito “crossover” Riccardo Muti e Massimo Cacciari hanno dialogato sul modo in cui l’arte del dipingere possa, in certi casi, sconfinare nell’arte della musica. E viceversa. Ne è scaturito un libretto che il Mulino (nella collana Icone) ha pubblicato con il titolo Le sette parole di Cristo. Che sono poi quelle che Franz Joseph Haydn ha messo in musica, donandoci uno dei capolavori del tardo Settecento.

Qualche secolo prima, Masaccio in una straordinaria Crocifissione — oggi esposta al museo Capodimonte — ha provato con il linguaggio della pittura a restituirci qualcosa che sembra anticipare il “grido” di Haydn. Come è stato possibile annullare la distanza temporale che separa i due artisti? Comincia da qui la lunga conversazione telefonica con Muti: «Tutto è nato dopo una mia visita al museo di Capodimonte. Davanti a quel dipinto — in cui Cristo sulla croce è circondato dalla Vergine, San Giovanni e la Maddalena — ho avvertito un senso di umana e profonda disperazione. E mi sono chiesto come una “tavola”, con quei colori e quelle forme, potesse parlarmi in quel modo così intenso. Per associazione il pensiero ha bussato alla porta di Haydn, e in particolare alla composizione che avevo da poco diretto. Anche lì, con un linguaggio diverso, si dava la rappresentazione drammatica del Cristo attraverso le sue ultime parole terrene. E quando Massimo Cacciari venne a parlare al Festival di Ravenna, convenimmo che era possibile intrecciare due esperienze artistiche come quelle vissute da Masaccio e Haydn. La domanda era: cos’è che permetteva ai due linguaggi di comunicare tra loro?».
E a quel punto?
«Ci siamo accorti che la risposta rinviava a una questione più grande, più impegnativa: qual è il rapporto tra il suono e l’immagine? In che misura pittura e musica, davanti alla stessa scena di un Cristo morente, trasmettono qualcosa che per definizione è indicibile. È su questo campo complicatissimo che un filosofo e un musicista hanno cercato delle risposte».
È curioso questo confronto tra lei e Cacciari.
«Perché?».
Musicalmente Cacciari proviene dalla linea Nono-Abbado, che so non appartenerle.
«Ma non mi appartengono, come pure non appartengono a Cacciari, i pregiudizi estetici. Ci siamo conosciuti al San Raffaele, dove insegna e dove mi hanno dato una laurea honoris causa poi, come le ho detto, venne al Festival di Ravenna. Amo la filosofia come lui ama la musica. E la musica, penso, è più vicina alla filosofia che non alla matematica».
Demolisce un’antica convinzione.
«Sebbene fossi un asino in matematica, un po’ di strada mi pare di averla fatta nella musica. E poi preferisco la letteratura. Meglio Thomas Mann che nel Doctor Faustus fa spiegare al balbuziente Kretschmar l’opera 111 di Beethoven che un discorsetto sulle terze maggiori e minori».
Un direttore d’orchestra deve avere buone letture alle spalle?
«Tutto ciò che in genere chiamo cultura arricchisce il nostro mondo interiore. Perfino lo studio del latino aiuta a leggere una partitura«.
In che senso?
«Non si può dirigere il Requiem di Verdi senza sapere che “requiem” è un accusativo e non un ablativo. Verdi non vuole consolare, bensì esprimere la fortissima tensione che si nasconde sotto il tragico».
Si può spiegare il suono, il grado di espressività che contiene, con le immagini?
«Un’immagine può aiutare a comprendere un suono ma non può restituirne la profondità».
Anche quando l’immagine evoca una perfezione assoluta, come nel caso di Masaccio?
«La musica è intangibile: è puro suono irraggiungibile. La pittura può esprimere solo in parte ciò che la musica evoca nel suo intero. La pittura, per quanto possa essere vertiginosa, ci inchioda a una prossimità, a una vicinanza col dipinto. La musica ci trasporta verso lontananze impensabili».
Allora come è possibile un confronto tra Masaccio e Haydn?
«Nel caso della Crocifissione vediamo e ascoltiamo due forme del dolore. Sia il dipinto che la composizione trasmettono la sensazione profonda della tragedia del divino nell’umano. Ma mentre Masaccio esprime tutto questo attraverso le tre figure concrete che circondano il Cristo, e gli offrono il loro affetto, Haydn deve trasformare in suono purissimo le parole che Cristo, nella sua solitudine, pronuncia sulla croce. Masaccio ci fa toccare quasi con mano la dialettica tra l’affetto e il dolore; Haydn spinge quel dolore in una zona di non ritorno, in una sintesi impossibile».
È come se Masaccio, diversamente da Haydn, immaginasse già la resurrezione dopo la morte.
«C’è la ricomposizione del dramma. Mentre le parole che il Cristo pronuncia “Dio perché mi hai abbandonato”, sono per Haydn un grido senza ritorno. La musica si interrompe come se fosse la vita a fermarsi e poi irrompe il terremoto. Lo sconvolgimento. Non c’è edificazione, solo macerie».
E tutto questo come viene descritto da Haydn?
«Non viene descritto, perché la musica vera non descrive ma evoca. Anche se il verbo “evocare” è insufficiente. Se si ascolta la Pastorale di Beethoven, qualcuno penserà ai prati, al ruscelletto che scorre, all’arcadia. Ma Beethoven non ha preso quella porzione bucolica di vita per donarcela. Ha trasformato le leggi formali della musica nella potenza del sentimento. In una sostanza impercettibile e unica. Che nel momento in cui ti libera, incatena».
Davvero la musica è la cosa più importante della sua vita?
«È una domanda insidiosa e perfino ingiusta. Eppure è così. La musica è stata e continua ad essere tutto per me».
È abbastanza chiaro cosa le ha dato, ma che cosa le ha tolto?
«Mi ha tolto la tranquillità; il potermi accostare ad essa con semplicità. Perfino il piacere dell’ascolto — l’esecuzione di grandi interpreti — mi è almeno parzialmente negato. Se mi accosto a un’incisione di Toscanini o di Von Karajan non c’è mai abbandono totale».
Perché?
«La ragione è che il godimento è subordinato al giudizio.
E quest’ultimo mi impedisce di lasciarmi andare alla bellezza del suono. Tantissimi anni fa ebbi la fortuna di vedere a Firenze, dove li stavano restaurando, i due bronzi di Riace. Ero al Maggio Fiorentino per dirigere un’opera di Gluck. Manzù allestiva le scene. Un pomeriggio andai a vedere, insieme a mia moglie, a mio figlio e allo stesso Manzù, quelle due strepitose statue. Nel silenzio, improvvisamente Manzù esclamò: guardate quelle spalle, sembrano montagne di bronzo. Era scattato in lui il desiderio del confronto. L’ammirazione contenuta dal giudizio. Poco dopo, mio figlio Francesco, credo che allora avesse otto anni, disse: sembrano due extraterrestri. Uno dava un giudizio tecnico; l’altro semplicemente si era affidato alla fantasia».
Oltre all’estro e al piacere, la musica può mettere chi la crea, ma anche chi la esegue o l’ascolta, davanti all’abisso. Che sensazione si prova?
«Di smarrimento e terrore, una sensazione tipica del mondo romantico».
Prima si citava Mann e Beethoven, c’è un lato demoniaco?
«Il Doctor Faustus, perché è a questo che allude, è un romanzo che attraverso la musica legge la catastrofe tedesca, durante e dopo la seconda guerra mondiale.
Quello è il vero abisso con il quale Mann fa i conti. Quanto alle pagine che lo scrittore dedica all’Opera 111, oltretutto ispirate dal filosofo Adorno, si coglie il finale struggente, quasi l’addio a un certo modo classico di comporre musica. E, al tempo stesso, il bisogno di aprirsi a nuovi modelli creativi. Non a caso Adrian Leverkühn, protagonista del romanzo, colui che giovane studente di teologia stringerà il patto con il diavolo dando l’anima in cambio di qualche anno di assoluta genialità creativa, non a caso dicevo inventerà la musica seriale».
Il modello a cui Mann pensa è Schönberg.
«Non c’è dubbio ma questo ci sta allontanando dal nostro discorso. Parlavamo dell’abisso».
Affrontando questo tema una volta mi disse: bisogna stare attenti ad aprire certe porte.
«Sentire delle voci di dentro può essere molto pericoloso, come aprire certe porte può risultare sconvolgente. Mi chiedo se l’arte debba saper affrontare questa sfida. Non credo ci sia una regola. Ci sono stati artisti, penso a Caravaggio, che hanno avuto l’audacia di spalancare certe porte infernali. Pagandone le conseguenze. Ma altri, come Haydn appunto, hanno cercato una perfezione senza lasciarsi coinvolgere dal tormento esistenziale.
Non hanno vissuto il dolore come un fatto privato, ma hanno saputo esprimerlo».
Come nelle Sette ultime parole del nostro Redentore in croce?
«Esattamente. Perché lì il dolore del Cristo, per quanto umanizzato, è espresso in modo drammatico da qualcuno che osserva la scena e non ne è coinvolto.
Haydn è fuori dall’evento tragico — e del resto come potrebbe capire l’intensità di quel grido, di quel dolore: come potrebbe sostituirsi al Cristo? — e questo gli consente di svolgere le sue frasi musicali senza lasciarsi travolgere».
L’autocontrollo ha la meglio.
«Conservare una certa distanza giova all’opera. Eduardo De Filippo mi disse che nel momento di massimo dolore l’attore sulla scena deve far piangere il pubblico ma non deve essere lui a piangere. Questo è l’autocontrollo che poi sarebbe meglio definire disciplina, qualcosa che l’arte mi pare sta perdendo».
«Perché viviamo in una società prettamente visiva, dove tutto è spettacolarizzato, dove conta solo ciò che viene svolto in questo eterno presente senza l’ausilio della memoria, senza ricorrere alla fatica di ciò che abbiamo imparato. La musica, ma in generale l’arte, meriterebbe più di una semplice provocazione».
Un direttore d’orchestra ha il compito di interpretare.
E quindi anche provocare.
«Ma la provocazione fine a se stessa dove ci ha condotto? A regie operistiche ridicole, per restare a un campo a me noto. Chiaro che ogni interpretazione richiede decisione e scelta. Può essere rischioso e può perfino accadere che il pubblico non capisca. Ma quello è il compito: far scendere la musica dal cielo delle idee e portarla in mezzo ai comuni mortali».
Lei sostiene che la perfezione della musica è però quella che resta sul pentagramma.
«Ci sono musiche intoccabili, che sulla carta offrono la possibilità di letture vaste o illimitate. Nel momento in cui si traducono in suono diventano impure. Entrano in contatto con il limite fisico e mentale dell’interprete. Sul pentagramma la Missa solemnis di Beethoven è pura metafisica. Irraggiungibile».
E non le viene la tentazione di affrontarla?
«Per anni ho evitato il confronto. Sentivo di non essere all’altezza di quell’immenso capolavoro. Percepivo il rischio di perdermi nel suo labirinto. Poi mi sono detto che un tentativo andava fatto. Avrei dovuto dirigerla a Chicago, debuttare lì. Ma quello che è accaduto in questi mesi ha sospeso tutto. E forse è stato meglio così.
Parlavamo di abisso. Beh, nella Missa solemnis c’è una vera voragine. Un rischio di sprofondare e perdersi in quell’opera senza fondo. Beethoven entra, nell’ultima parte della sua vita, in una zona metafisica che per lungo tempo ho sentito lontana dalle mie possibilità».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«Gli anni che passano e che ti dicono: hai davvero provato a dare il meglio di te? Hai saputo metterti alla prova? Non è un’iniziazione, è un finale di partita nel quale devi scoprire quali sono davvero i tuoi limiti. Io so di essere nulla davanti alla grandezza di quell’opera. Lo so. Ma so anche che come uomo devo scoprire dove posso arrivare per provare quanto meno a svelare una parte di quel mistero».
È un po’ come cercare Dio.
«Nell’ultimo Beethoven c’è un’aria purissima e rarefatta.
Una mistica divina. Mozart diceva che tra le note c’è l’infinito silenzio, c’è Dio, ossia l’incommensurabile. Non è il Dio dei cristiani o dei musulmani. È il Dio del mistero che penetra la musica e ci stupisce e ci affascina come se ogni volta fosse la prima volta».