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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

Intervista a William Kentridge

Si muovono in processione sotto le volte gotiche degli Antichi Arsenali di Amalfi le ombre di William Kentridge che parlano di miseria, segregazione, migrazione, malattia, danzando freneticamente al suono di una banda di ottoni, per esorcizzare la morte. More Sweetly Play the Dance, la videoinstallazione su otto schermi dell’artista sudafricano, è un’emozionante e gigantesca lanterna magica di 40 metri. Resterà visibile fino al 2 dicembre a cura della galleria Lia Rumma, voluta dalla Regione Campania e attuata da Scabec, in collaborazione con il Comune di Amalfi. Abbiamo raggiunto l’autore, William Kentridge, ragionando con lui sul suo lavoro, una forte metafora di ciò che tutti stiamo vivendo.
Che cosa pensa del ritorno della discriminazione razziale negli Usa?
«Ovunque nel mondo si sente riecheggiare il grido Black Lives Matter, ma in verità in Sudafrica sono almeno cento anni che c’è. La verità è che il potere degli Usa è tale da imporre condizioni e termini del dibattito».
La sua è un’arte puntata sul mondo e da sempre dà voce agli invisibili. Di fronte al razzismo, che, pur restando sottotraccia, ritorna virulento, quale può essere il ruolo di un artista?
«Si sente l’esigenza di un’azione politica contro il razzismo, che è presente ovunque in forma quiescente. Penso che l’arte si occupi sempre di questioni che muovono la società, ma in modo indiretto. Basta considerare che cosa accade nello studio di un artista: i temi che agitano il mondo vi irrompono, insieme ad altre questioni di natura personale, sociale, sotto forma di articoli, foto di giornale, e-mail, sogni, ricordi. Il mondo intero entra in quello studio e poi viene scomposto, riorganizzato, montato, fuoriuscendone come disegno, film o altro, e innescando un’esplosione creativa. Sotto la spinta della società possono emergere e imporsi nuove immaginazioni e modi di pensare inediti. La cosiddetta maledizione cinese “che tu possa vivere in tempi interessanti”, per l’artista è sempre anche una benedizione».
Il suo grande disegno in movimento in mostra ad Amalfi trae il titolo dalla poesia “Fuga di morte” di Paul Celan: “Suonate più dolce la morte”. La danza come fuga dalla fine?
«Le letture sono due. La prima è un memento mori dell’epoca della peste: la lunga videoproiezione senza soluzione di continuità si ispira alla “danza macabra” medioevale, dove la morte veniva rappresentata come uno scheletro accompagnato da altri personaggi, in primis il papa, il clero, il re e poi i proprietari terrieri, i contadini, e per ultimi i bambini, per dimostrare che tutti potevano morire. Ma c’è anche un’altra versione. In alcuni villaggi si credeva che se gli abitanti si fossero agitati senza sosta e avessero ballato nelle piazze, avrebbero impedito che la peste li raggiungesse. La danza è un atto di resistenza contro la paura e contro l’accettazione del destino».
La sua videoinstallazione mette in scena una società in movimento molto simile alla nostra, rappresentata dalle fasce deboli: anche i suoi protagonisti sono toccati dalla paura della malattia, come quella che si vive oggi con la pandemia?
«Nel film, che è del 2015, aleggia una “peste” anche se non è stato realizzato in tempo di Covid. Risale a quando quella peste era il virus di Ebola. I personaggi in tuta protettiva e le figure che avanzano con le flebo rimandano alle vittime di quell’epidemia di gran lunga inferiore rispetto a quella odierna. Ma ovviamente questa pandemia ricorre nel film, con tantissime altre immagini: un uomo che scrive a macchina, un politico, una banda musicale che ho invitato in studio».
Una realizzazione tecnica molto complessa?
«Le varie figure sono state filmate individualmente, mentre camminavano avanti e indietro nel mio studio, percorrendo una distanza equivalente alla lunghezza di uno schermo, le filmavamo più volte in modo da poterle far passare da uno schermo all’altro, poi i vari soggetti sono stati montati e riuniti. Le persone in processione portano il loro mondo sulle spalle, come i migranti che dall’Africa arrivano al Sud d’Italia».
Nel mondo di “More Sweetly” la danza è anche un modo di vivere attraverso la violenza e di morire per essa?
«Quell’idea era vivida nella mia mente perché circolava in Europa dal 2014, quando cominciarono le ondate migratorie di massa verso il continente europeo, ma era un’immagine già presente in Africa molto prima. Quindi, ancora una sorta di premonizione. La mia “danza” è l’anticipazione di qualcosa che si verificherà, purtroppo, altrove. Spero che l’opera sia sufficientemente ambigua da consentire diverse interpretazioni. Queste persone avanzano tutte verso il loro inevitabile destino o vi si oppongono spostandosi. L’ambiguità dell’opera sarebbe coerente con quella del mondo. Non è solo l’artista che rifiuta di impegnarsi. Ci dice che è il mondo intero a non impegnarsi. Tutti procedono verso un’unica direzione, si finisce col pensare che abbiano un proprio Gps e che troveranno la strada, ma nel momento in cui le vediamo abbiamo di fronte un’unica possibilità. E c’è la resistenza all’entropia, l’opposizione al fato».
Quale metafora esorcizzante userebbe per la paura della morte di oggi?
«Finora il Covid, se non sbaglio, ha ucciso quasi un milione di persone, diversamente dai 50 milioni della “spagnola”. Prendiamo un palazzo di tre piani alto sette metri, con un righello tracciamo alla base una linea di un millimetro, lo spessore di una matita: quella parte corrisponde al numero delle vittime, finora, rispetto alla popolazione mondiale. Anch’io ho avuto il Covid, e altre persone del mio studio, ma siamo tutti guariti, e ora ci sentiamo sollevati, perché è come se avessimo attraversato un lago in tempesta giungendo alla fine sull’altra sponda. Sappiamo che ci sono ancora tanti intrappolati sul lato opposto e continuiamo ad avere paura. Anche se non ho realizzato immagini del Covid, l’atmosfera ansiogena che genera so che sta saturando lo studio e che riemergerà sotto varie forme».
La narrazione in “More Sweetly” finisce mentre inizia la storia della sofferenza. La vita come la conosciamo è tragicamente spezzata?
«Spero davvero di no. Mi sento bloccato a Johannesburg. Se qualcuno mi dicesse che ormai la mia vita è questa, ne sarei destabilizzato. Non prenderemo certamente gli aerei come fossero autobus. Ma per me è ancora importante potersi confrontare fisicamente con un altro corpo, con un’opera d’arte. Mi aggrappo all’idea di un corpo, di quello che tutti noi abitiamo. Spero perciò di riuscire presto a raggiungere Amalfi, un angolo di mondo meraviglioso».