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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

«Pronto? Qui Stoccolma. Lei ha vinto»

Lo scrittore viene svegliato da una telefonata all’alba. Alla parola “Stoccolma”, benché incredulo, capisce. Si mette a ballare sul letto con la moglie. Che lo accompagnerà alla cerimonia, ma con un’insofferenza crescente: al punto da lasciarsi sfuggire, nel dialogo con un giornalista, un’amara e indicibile verità. Dietro al successo letterario del marito, c’è il suo ingegno. È la trama di un film del 2017 con Glenn Close, diretto da Björn Runge, The Wife. Il fascino ambiguo della storia dimostra che il Nobel per la letteratura – contestato, irriso, intorbidato dagli scandali, sminuito – è a suo modo letterario. Genera un’aneddotica esorbitante. Compresa quella relativa al momento in cui si viene raggiunti dalla notizia: Doris Lessing, premiata nel 2007, non era in casa, il telefono squillò a vuoto, lei tornava dal supermercato e trovò un capannello di cronisti ad attenderla. Le scappò un’imprecazione. Dario Fo, ultimo Nobel italiano, fu raggiunto dalla notizia mentre era in macchina con Ambra Angiolini per le riprese di un programma televisivo. Un’altra auto li affiancò; al finestrino era esposto un cartello con scritto: «Hai vinto il Nobel». Sembrava uno scherzo. Kazuo Ishiguro si scusò con i giornalisti che lo assediavano per non essersi lavato i capelli, ma tutto si aspettava quella mattina di ottobre, fuorché di vincere il Nobel.
Di solito, comunque, non è una notizia che dispiace ricevere: anche se – come ha raccontato di recente su Repubblica Olga Tokarczuk – la cosa «toglie un bel po’ di libertà. E porta molte nuove responsabilità». Scherzando, la scrittrice polacca premiata lo scorso anno con un Nobel retroattivo, valido per il 2018, ha citato la sua connazionale Wislawa Szymborska, che nel 1996 commentò la sua incoronazione con la seguente frase: «È una catastrofe». Michal Rusinek, che le fece da assistente, racconta nelle pagine di Nulla di ordinario (Adelphi) l’inesausto senso dell’umorismo della poetessa: «Alla domanda contenuta in una lettera – perché ha vinto il Nobel? – non replicò. Ma mi confessò che era tentata di rispondere: perché evidentemente gli svedesi sono gente strana». Rusinek racconta anche il tour de force della cerimonia, con prove di passi, di inchini, ricevimenti e banchetti a cui conviene arrivare già sazi. Per rilassarsi, Wislawa si accese una sigaretta, anche se non è consentito farlo prima che lo faccia il re. Solo i giornali più coraggiosi il giorno dopo pubblicarono la foto della Szymborska che fumava durante il ricevimento del Nobel.
Gesto di sicuro meno irrituale e irrispettoso del gran rifiuto di Jean-Paul Sartre. Nel 1964 rinunciò spiegando di avere sempre «declinato gli onori ufficiali» e di non potere accettare riconoscimenti, per ragioni di ortodossia socialista, conferiti «dalle alte istanze culturali, sia all’ovest che all’est». Il suo eterno antagonista Albert Camus aveva avuto il Nobel nel 1957, e lo accettò manifestando, tuttavia, «smarrimento e turbamento interiore». Oltre a domandarsi «con quale spirito» dovesse accogliere il premio «mentre in Europa altri scrittori, e tra i più grandi, sono ridotti al silenzio, e mentre la sua terra natale vive una sventura incessante». Camus si poneva, nel modo più alto e più politico, il tema ricorrente – e spesso materia di gossip – degli esclusi: c’è sempre chi si domanda perché non l’abbiano mai vinto Proust, Joyce, Virginia Woolf. Le carte che emergono dagli archivi dell’Accademia di Svezia testimoniano divisioni e scontri interni perfino su Beckett, dubbi su Borges (forse per una sua visita a Pinochet?) e sul nostro Moravia. Chissà se prima o poi si chiariranno le ostilità all’eterna candidatura di Philip Roth. Morto, guarda caso, proprio nell’anno in cui il Nobel è stato sospeso per una vicenda di molestie sessuali. Perfetta per un romanzo di Roth, che esibiva distacco, ma non avrebbe certo rifiutato il premio.
Fra i pochissimi a sottrarsi volontariamente al massimo onore per un letterato, figurano Pasternak e un recalcitrante George Bernard Shaw, poi convinto a tornare sui propri passi – pare – dalla moglie. Elfriede Jelinek si disse «esterrefatta», e invitò a considerare l’ipotesi di conferire il Nobel, piuttosto, al suo conterraneo Peter Handke, un «classico vivente». Che l’ha ricevuto infine l’anno scorso, in un mare di polemiche per i suoi interventi a favore di Miloševi?. Jelinek, in ogni caso, non andò a Stoccolma, più per ansia e timidezza che per snobismo. La scusa fornita da Bob Dylan per la sua assenza alla cerimonia («impegni presi in precedenza») suonò invece surreale. Tanto più che l’Accademia di Svezia l’aveva cercato per quattro giorni di seguito. Andò al posto suo Patti Smith, comunque. E lui si presentò, con comodo, dopo qualche mese. Per dire che, secondo lui, «le canzoni non sono letteratura». Geniale.
I discorsi da Nobel sono un genere a sé. La saggista Daniela Padoan, che ne ha raccolti diversi nel volume Per amore del mondo (Bompiani), osserva come quelle lecture speciali impongano agli autori una responsabilità quasi schiacciante: rappresentare il senso della propria opera e nello stesso tempo aprirsi al mondo, su un piano etico e politico insieme. Scivolosamente, Thomas Mann, ricevendo il Nobel nel ’29, lo ritenne dedicato allo «spirito tedesco». Meno discutibile García Márquez che, nel 1982, parlando per l’intera America Latina, evocò le migliaia di vittime di «piccoli e indocili paesi», le guerre, le rivolte, i colpi di Stato. Che cosa può la letteratura contro la violenza? È la domanda che risuonò a Stoccolma nel 1970 durante la lettura del discorso di Aleksandr Solženicyn, cui il regime sovietico impedì di ritirare il premio. Ed è straordinario il ragionamento di Toni Morrison, nel ’93, sul linguaggio oppressivo, che «fa più che rappresentare la violenza: è violenza; fa più che rappresentare i limiti della conoscenza: limita la conoscenza». La sera in cui si seppe del Nobel alla scrittrice afroamericana, in una piccola libreria di Harlem fu appeso un cartello con scritto: «Congratulazioni, Toni Morrison, la nostra amatissima», con riferimento al suo romanzo più famoso, Beloved. Lei commentò dicendo che era quello il riconoscimento più grande: «Perché vuol dire che non sono sola».