Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  ottobre 03 Sabato calendario

Orsi & tori

E se la durata della pandemia sarà superiore a quella delle moratorie?E se la democrazia istantanea non sarà regolata?
E se anche in Vaticano «Non c’è pace fra gli ulivi» e anzi la guerriglia è senza quartiere?
Non sono solo queste le incognite che l’Italia e il mondo hanno davanti, ma ce n’è d’avanzo per suggerire una riflessione su questi temi, così come ha fatto una riflessione, bellissima, il professor Sergio Harari, pneumologo, sul Corriere della Sera di venerdì 2 sui cambiamenti introdotti dal Covid-19 o Sars-Cov-2 che dir si voglia. Il primo se riguarda un numero enorme, misurabile in milioni, di pmi italiane. Dall’Abi, l’Associazione delle banche italiane, arriva la segnalazione che, di questo passo, i finanziamenti concessi alle aziende dal sistema bancario con la garanzia dello Stato, all’80 o 90%, arriveranno prestissimo al valore di 100 miliardi di euro. A giovedì 1° ottobre, infatti, i finanziamenti concessi hanno superato gli 87 miliardi, per un milione e 130 mila domande, di cui 919 mila fino a 30 mila euro (quindi per microimprese), per un importo complessivo di 18 miliardi.
Ma oltre ai nuovi finanziamenti ci sono i finanziamenti in essere pre-Covid e su questi in moltissimi, se non tutti i casi, ha operato la possibilità data per legge di ottenere le moratorie. Proprio in questi giorni il diritto è stato esteso come durata della moratoria sino a febbraio. All’Abi ritengono che se la pandemia durerà, anche solo nella gravità attuale in Italia, oltre il nuovo termine delle moratorie, la situazione sarà disastrosa sia per le aziende che per le banche, che sono legate fra loro in maniera indissolubile. Se le aziende non rimborseranno i prestiti non saranno più bancabili e nei conti delle banche, in base alle norme imposte attualmente dal regolatore europeo, si aprirà una voragine. Una voragine che si aggiungerà agli oltre 380 miliardi di npl, cioè di crediti inesigibili, come ha calcolato uno studio della Banca Ifis guidata da Luciano Colombini. Sarebbe il disastro dell’economia nazionale.
Per questo, nell’Associazione delle banche italiane si respira forte preoccupazione, che spinge a richiedere due decisioni fondamentali. Da una parte che le moratorie durino per tutto il tempo di durata della pandemia e dall’altra che i calendari di deterioramento dei crediti, che obbligano le banche a svalutare, siano adeguati ai tempi, visto che in generale sono stati decisi prima della pandemia e che proprio di recente dall’Eba, l’Autorità bancaria europea, sono stati inaspriti, inserendo nei vincoli di svalutazione anche i crediti classificati utp (unlikely to pay), cioè che è improbabile che siano pagati, mentre sono ancora un credito vivo. Se le banche dovessero svalutare e considerare le rate non pagate senza la legge di moratoria, inizierebbe una valanga che non si sa dove si fermerebbe.
Non è chiaro se il Governo e il Parlamento siano perfettamente consapevoli di questa realtà che non è del resto solo italiana e che quindi anche il Parlamento e la Commissione europea debbano intervenire su Eba perché per il rigore si determini la catastrofe. Catastrofe sicuramente più grave in Italia, perché nel Belpaese ci sono enormemente più pmi, ma con un sistema attuale addirittura in migliori condizioni, per esempio, della Spagna dove è stato compiuto un salvataggio non di banche popolari ma di un grande istituto di credito come Bankia, tale che fondendosi con la Caixa è diventato per dimensione la più grande banca spagnola.
Ma c’è un altro segnale di cui ItaliaOggi è a conoscenza attraverso alcuni casi segnalatici, e cioè che con le incertezze in essere (per ridurle, almeno a livello italiano, basterebbe riformulare la durata delle moratorie legandole alla dichiarazione di fine della pandemia), alcune banche non erogano più, nonostante le garanzie dello Stato e nonostante i numeri delle operazioni siano, come visto, vicini ai 100 miliardi. Ma proprio per questi numeri le banche si preoccupano anche del rischio sul 10 o 20% dell’erogato, mentre le moratorie, essendo per legge dello Stato, permettono alle banche di non dover mettere a perdita i mancati, temporanei, pagamenti. Ma per arrivare a simili decisioni ci vorrebbe un governo coeso e non divergente com’è. Di fronte a queste prospettive, alla componente gialla del governo sfugge che indugiare sul Mes è follia. Così come è follia tutto ciò che sul piano dell’economia e delle aziende non viene deciso tempestivamente, come per esempio la telenovela o meglio la fiction di Aspi, la società autostrade per l’Italia; oppure l’Ilva di Taranto; oppure una riforma della giustizia, decisiva per non far sfuggire gli investitori stranieri, sia quelli che hanno già investito, o quelli che vorrebbero investire ma non si fidano: non sappiamo se è un record, ma temiamo di no, al Tribunale di Caltanissetta, la Corte d’appello deve ancora giudicare ricorsi del 2013. Visto che è anche siciliano, perché il ministro Alfonso Bonafede non manda gli ispettori a capire cosa succede?

* * *

I rinvii e i ritardi potrebbero essere niente rispetto a cosa sta succedendo per il sistema democratico classico anche dei Paesi con democrazia classica più solida. E il riferimento non è a cosa sta accadendo negli Stati Uniti, anche se è aberrante, perché lì comunque esiste il criterio del check and balance e quindi interviene il Congresso se l’amministrazione si dimentica di applicare le norme antitrust agli Ott per cui Google, Facebook, Twitter sono i padroni dell’informazione e si possono permettere di censurare il presidente Donald Trump, che lo meriterebbe per le madornalità che dice ma che è pur sempre il presidente e comunque i cittadini hanno il diritto, per esercitare il voto, di conoscere cosa Trump dice.
No, il p roblema è generale. Per l’evoluzione del digitale, la possibilità di ogni cittadino di esprimere il suo giudizio sui social anche due secondi dopo che un politico ha detto o fatto, genera una democrazia istantanea, come ha spiegato bene il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, nel suo intervento di pochi giorni fa alla Milano Finanza digital week. Non è certo negativo che ogni cittadino possa esprimersi, ma non essendoci più solo il voto per giudicare dopo tre, quattro, cinque anni dalla elezione del politico, il politico stesso deve reagire e quindi nascono le Bestie e le zuffe continue. Con mosse e contromosse degli avversari, mosse e contromosse per diffondere notizie false o mezzo vere o mezzo false. Le fake news sono una pandemia permanente, che altera la democrazia, perché di fatto incontrollabili. E ciò che si profila da questo lato è ancora peggio. Google, dopo aver rubato per anni le informazioni agli editori, rubandogli di conseguenza la pubblicità, aggravando in maniera drammatica la crisi dei giornali, quando la Francia ha reso legge la decisione del Parlamento europeo per il rispetto del copyright di ciò che chiunque pubblica su carta o digitale, ha finalmente manifestato il suo perfido disegno. Ha cominciato a rompere il fronte degli editori, facendo accordi con alcuni di essi, cominciando dalla Germania. In più, giovedì 1, ha comunicato di aver stanziato 1 miliardo di dollari per pagare nei prossimi tre anni, cominciando dalla Germania e dal Brasile, per la pubblicazione di titoli e sommari dei giornali. Sembrerebbe un passo avanti, ma non lo è perché a decidere quali titoli e sommari mettere sui suoi sistemi è lo stesso Google, che così diventa il Grande Fratello, visto che detiene il 94% del mercato del search, violando qualsiasi norma antitrust. E quale sia la sua forza è testimoniato dal fatto che il secondo operatore è Microsoft, mica un barbone qualsiasi. Un dominio inaccettabile, per il quale finalmente si è mossa la sottocommissione antitrust della commissione giustizia del Congresso americano. Ma è chiaro che a muoversi dovrebbero essere anche i parlamenti e i governi di altri Paesi. L’Europa lo ha fatto appunto con la legge sul copyright e con le indagini della vicepresidente della Commissione europea, Margrethe Vestager, che sta anche cercando di imporre la tassazione agli Ott, scontrandosi con la giustizia di Paesi come l’Irlanda, che pur facendo parte dell’Ue sono di fatto paradisi fiscali. La multa di 13 miliardi di dollari imposta ad Apple, è stata infatti annullata dal giudice irlandese, visto che il piccolo paese vive con le pochissime tasse che fa pagare alle moltissime multinazionali che hanno fissato lì la sede.
Il digitale, internet, il web e tutto ciò che ne deriva sono formidabili. Ma stanno smantellando le democrazie parlamentari come le abbiamo conosciute da quando è stato conquistato il diritto al voto per tutti i cittadini. La democrazia istantanea, con tutte poi le deformazioni del potere conquistato dagli Ott per la mossa strategica degli Stati Uniti di lasciargli piena libertà affinché aumentassero il potere americano nel mondo, è una bestia nuova, che va domata. A prendere l’iniziativa dovrebbero essere proprio gli Stati Uniti perché i presidenti sono non solo controllati ma anche censurati dagli Ott. Purtroppo non ci sono ancora segnali di una volontà di creare regole nuove per la democrazia istantanea e il caos, assieme alla pandemia, regna nel mondo.

* * *

Nel mondo e perfino nello Stato più piccolo ma più grande del mondo, il Vaticano. Non c’è pace tra gli ulivi, non è tanto il titolo di un vecchissimo film di successo e non perché gli ulivi siano semplicemente segno di pace, ma perché nel Vangelo secondo Matteo viene testimoniata l’angoscia di Gesù che trova la pace solo quando si rifugia a meditare nell’uliveto poco fuori Gerusalemme chiamato Getsemani, parola aramaica che sta per frantoio, sul Monte degli ulivi. Sarebbe utile che monsignori, vescovi e cardinali facessero altrettanto.
La guerra in Vaticano per questioni finanziarie non è una novità, ma non si era mai arrivati a tanto come ora, con il ritiro del titolo di cardinale ad Angelo Becciu e l’incriminazione di Monsignor Alberto Perlasca, che messo sotto accusa ha cominciato a parlare mettendo in crisi il suo superiore ex cardinale Becciu. La giustizia farà il suo corso, ma giova appunto ricordare che questi scandali sono un fenomeno ciclico per le finanze vaticane.
Si ricorderà sicuramente le vicende di monsignor Paul Marcinkus, guardaspalle di Papa Paolo VI, di fatto capo dei servizi segreti del Vaticano e sodale di Roberto Calvi e di Michele Sindona. Marcinkus, originario come Al Capone di Cicero, sobborgo di Chicago, giocava a golf, era spesso circondato da ragazze, e al culmine della sua carriera fu nominato segretario (carica che nel mondo laico equivale ad amministratore delegato) dello Ior, che al di là di essere l’Istituto per le opere di religione, ne ha viste di tutti i colori. Era socio di Calvi e Sindona nella società Pacchetti. Per questo, quando scoppiò lo scandalo Sindona, fu nominato presidente dello Ior, per togliergli operatività diretta. Appunto, promoveatur ut amoveatur. Allora si faceva così. Ma le connessioni dello Ior con affari poco trasparenti continuarono. Ci pensava il laico Luigi Mennini, padre di 11 figli (uno monsignore, un altro impiegato all’Apsa), abilissimo cambista visto che lo Ior allora faceva da banca e da investitore dell’Obolo di S. Pietro, cioè di tutte le offerte dei fedeli da tutto il mondo, in tutte le valute. Nel tempo lo Ior è stato normalizzato con il divieto di fare da banca anche per l’esportazione di capitali, mentre l’Apsa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) è finita in questo ultimo scandalo. Infatti, l’operatività dell’Apsa era effettuata dalla sezione Affari generali della segreteria dello Stato Vaticano, di cui era appunto responsabile l’ex cardinale Becciu. E per questo dalle mani di Becciu e di Perlasca passavano i soldi dell’Obolo di S. Pietro per essere investiti e diventare patrimonio dell’Apsa.
Interessi finanziari, rivalità, guerre intestine: non è appunto una novità che questa, assieme ai meriti, sia la realtà della Curia. Solo lo scandalo dei preti e dei prelati pedofili è più grave delle deviazioni finanziarie. Ma il metterle a nudo così clamorosamente, se da una parte può fare giustizia, dall’altra metterà in forte crisi la Chiesa di Papa Francesco. Troppi ecclesiastici pensano che valga anche per loro l’allocuzione latina pecunia non olet, che si può tradurre letteralmente il denaro non ha odore, cioè il denaro è pur sempre denaro.
Lo Ior e l’Apsa non sono stati deviati solo quando segretario amministrativo, dallo scoppio della seconda guerra mondiale, fu Massimo Spada. A quel tempo, Pio XII chiamò Spada per decidere come investire la consistente liquidità dell’Obolo. Dopo un giorno, Spada, romano com’era romano Papa Pacelli, arrivò con la proposta: «Sua Santità, la mia indicazione è di investire quasi tutta la liquidità in sterline oro». Pio XII fu d’accordo. Alla fine della guerra quella liquidità si era moltiplicata in maniera esponenziale. Pio XII, che pure era stato sospettato di una certa inclinazione verso Adolf Hitler, chiamò nelle sue stanze Spada. «Massimo», gli disse, «la Chiesa è universale, ma non possiamo dimenticarci di essere italiani e l’Italia è distrutta». Fu deciso allora di investire in attività che creassero posti di lavoro. Il primo investimento fu fatto nell’industria che aveva bisogno di più manodopera. Fu scelto il Cotonificio Maino. Dopo una quindicina d’anni, gli investimenti vaticani si moltiplicarono. Spada, lasciata la segreteria amministrativa dello Ior, rappresentava il Vaticano in una quarantina di società, inclusa l’Italcementi di Carlo Pesenti.
Allora regnava Papa Giovanni XXIII, bergamasco di Sotto il Monte. Pesenti aveva anche la Lancia che andava malissimo e riteneva che, se Spada fosse diventato presidente, le banche gli avrebbero fatto credito. Spada esitava. Il papa lo chiamò per una passeggiata a braccetto nei giardini vaticani: «Caro Massimo, come facciamo a dir di no al Signor Carlo...». Altri tempi, altri Papi.
Ma non si può sottacere che Giovanni Paolo I avesse deciso di andare a fondo nelle nebbie finanziarie del Vaticano. Spada mi aveva fissato un incontro perché raccontassi al Papa, dopo una copertina de il Mondo con una lettera aperta al Pontefice, le malefatte della cricca Sindona-Marcinkus-Calvi. Ma il Papa morì improvvisamente, lasciando molti dubbi sulla sua morte.
Se anche in Vaticano continuano le manipolazioni, poveri noi e povera Chiesa.