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 2020  ottobre 03 Sabato calendario

Sul film "The social dilemma"

Molti di noi dopo aver visto «Super Size me», il docufilm del 2004 che condannava impietosamente l’alimentazione da fast-food, per qualche tempo non hanno mangiato il loro cibo preferito da quando erano bambini: hamburger e patatine fritte.
Vedere il povero Morgan Spourlock, regista e attore principale della pellicola candidata all’Oscar, che innaturalmente si cibava di junk food per una serie di giorni e a colazione, pranzo e cena, e subiva le naturali conseguenze metaboliche di questa improbabile dieta, lasciava di primo acchito attoniti e successivamente inorriditi. Per questo ci siamo sentiti tutti un po’ parte dell’allora emergente consapevolezza nutrizionista, che ha progressivamente invaso il mondo dell’alimentazione e che dal nostro Paese ha avviato il verbo dello slow food che con tante realtà Made-in Italy è andato negli ultimi dieci anni a conquistare il mondo.
Nascerà uno Slow Web dopo che milioni avranno visto The Social Dilemma? È un docufilm come solo gli americani sembrano saper fare. Entra a gamba tesa su uno dei migliori prodotti che gli Stati Uniti hanno generato negli ultimi decenni: i signori della tecnologia che hanno riaffermato il primato americano sull’innovazione. Un’ora e 34 minuti da restare incollati al piccolo o al grande schermo. A produrlo è uno di quei signori: Netflix, una delle aziende FAANGM (acronimo delle aziende digitali a maggior capitalizzazione di mercato – Facebook Amazon Apple Netflix Google Microsoft). Davanti alla macchina di presa scorrono le confessioni di alcuni degli stessi protagonisti che hanno creato il mondo dei social negli ultimi quindici anni.
Non è consueto passo dopo passo divenire consapevoli della progettazione razionale degli stimoli che guidano i nostri comportamenti quotidiani nell’impiego del web. A chi infatti ignorasse il perché dei propri «Like» e del proprio «pollice verso» nonché delle loro conseguenze, il premiato regista Jeff Orlowski offre ampie motivazioni per dimostrare che è tutta una messa in scena della giostra creata dai giganti della Silicon Valley. Parafrasando il titolo di un libro di uno dei più celebri creatori del web, Jason Lanier inventore della realtà virtuale, artista e compositore e tra i protagonisti del film, ricorre nel documentario la frase rivelatrice del core business delle FAANGM: “se il servizio è gratis, il prodotto sei tu”.
A fronte di una dimostrazione così palese dovremmo forse arrenderci. Invece no. A differenza di Super Size Me, dopo aver visto il film, il giorno dopo nel letto ancora insonni dopo la sveglia mattutina twittiamo un commento su una recensione di giornale, mettiamo un like a un post che ci sembra aver anticipato una nostra emozione, diventiamo follower su Instagram di un influencer, che riteniamo abbia conquistato la nostra stima. Ma perché siamo sopraffatti dall’intrusione dei social? Perché non diventiamo, almeno per qualche mese, nutrizionisti del digitale?
Forse il motivo va ricercato proprio nel valore che attribuiamo al web dal lontano 1993. Quando si è propagato nelle nostre case ha anzitutto permesso di connetterci con il mondo (parenti, amici, giornali, operatori di ogni natura sociale ed economica) come nessun media era riuscito a fare. E lo ha fatto dandoci una visibilità impensabile rispetto a qualsiasi strumento di comunicazione. Grazie al tracciamento e alle chat di ogni genere ha poi permesso agli operatori che producono servizi sul web di conoscere meglio i nostri comportamenti e abitudini. Così facendo, ci ha permesso di servirci meglio (se acquistiamo certi prodotti on line riceviamo pubblicità e sconti su prodotti che tendenzialmente ci piacciono) e di sentirci meglio (se siamo un po’ down, un meme su whatsapp o un post su facebook magari ci tira su).
E allora? E allora non si tratta di ragionare come i FAANGM amano farci fare: bianco e nero, like o dislike. La realtà è più complessa. È piena di bianchi e grigi, sembra dirci sin dal titolo The Social Dilemma. Il valore oggettivo di innovazioni dirompenti rischia di essere compromesso dalla manipolazione dei dati e da un impiego innaturale che le molteplici applicazioni introdotte in questi anni hanno permesso. Gli attacchi web durante le precedenti elezioni americane, le recenti vicende proprietarie del social cinese TikTok, oggetto di culto di ragazzi e teenager, nonché l’avvento dei deep fake e dell’intelligenza artificiale sono solo esempi del fatto che la tecnologia, sì anch’essa, va governata.
Non è un caso che sia proprio la vecchia Europa a essere guardata come benchmark dagli stessi signori del web Usa. Riflessiva (ebbene sì), lenta (speriamo non più del necessario), la Ue ha tirato fuori dal cappello un vecchio coniglio: basta darsi delle regole. I dati con i quali ci “aiutano” non disinteressatamente i big del tech sono sì la benzina dell’economia del futuro ma non devono né essere manipolati né essere cancellati: devono essere regolamentati e impiegati secondo i principi dell’etica per migliorare la società. L’Europa ci prova. La credibilità della posizione europea nei prossimi mesi diventa essenziale, anche alla luce dell’assenza di operatori nel vecchio continente e al rischio che i nostri dati navighino nel cloud senza salvagente.
E noi? Solo attori passivi? Tutt’altro. Sta a noi studiare. Imparare, chiedere formazione, magari qualche bonus in meno e qualche lezione in più. Governare la tecnologia, dalle tattiche più operative (attivare i firewall di fronte a pericoli, cancellare abitualmente i cookie, leggere attentamente quando si dà ok all’impiego dei dati) alla formazione in scuole e in università per favorire il pensiero critico dei ragazzi e, diciamocelo, anche di noi adulti. Solo 8 italiani su 100 sono impegnati in apprendimento permanente, contro i 34 svedesi su 100.
Sciogliere il Social dilemma con il sapere, ecco l’invito che sembra di intravvedere nel docufilm. Siamo ancora all’alba dell’impiego del web e ci vorranno parecchi anni per metabolizzare il suo violento ingresso nella società: demonizzarlo o diventarne schiavi non aiuta certo l’evoluzione della società. Al pari della rivoluzione culinaria partita dalle Langhe più che di uno slow web servirebbe un “web aware”, un web consapevole.