Corriere della Sera, 3 ottobre 2020
Storia delle trame vaticane contro Pell
«Il processo a George Pell è stato condotto con cannoni australiani e munizioni vaticane...». Quando a giugno del 2017 il cardinale scelto da papa Francesco come «zar dell’economia» è stato costretto al «congedo» per tornare in Australia a difendersi dall’accusa infamante di pedofilia, i sospetti sono spuntati immediatamente. Qualcuno, a Casa Santa Marta, probabilmente all’insaputa di Francesco, conosceva in anticipo le mosse della giustizia del tribunale di Melbourne, nello Stato di Victoria. Sapeva e prevedeva quando Pell sarebbe stato processato, mentre nelle stanze del potere vaticano si proclamava con una punta di ipocrisia la speranza che alla fine fosse assolto, ma anche che si togliesse dai piedi.
«Qui contiamo di non vederlo più», era la confidenza di quanti ritenevano di essere stati toccati e danneggiati dai controlli decisi dal «rugbista»: uomo ruvido, sprezzante con «gli italiani», e fino a quel momento braccio armato della riforma finanziaria voluta da Jorge Mario Bergoglio. Mistero nel mistero, dieci giorni prima che Pell lasciasse l’incarico si era dimesso improvvisamente, con tre anni di anticipo, il revisore generale Libero Milone, suo principale collaboratore. Dimissioni anomale, sulle quali ci si sentiva rispondere alla richiesta di chiarimenti: «Chiedete alla Gendarmeria..».
Tre mesi dopo, il 24 settembre del 2017, Milone rivelò che non si era dimesso spontaneamente. Aveva gettato la spugna perché avevano minacciato di arrestarlo, dopo un incontro con Becciu che gli aveva comunicato: «Il Papa non ha più fiducia in lei»; e dopo un burrascoso confronto con il comandante della Gendarmeria, Domenico Giani: tranne poi, in un documento del Tribunale vaticano datato 19 maggio 2018, sapere che su di lui non c’erano procedimenti penali aperti. «D’altronde», era la giustificazione, «questa è la Chiesa del magistero. Non deve apparire quella della magistratura». E poi, il bersaglio grosso di una vicenda tuttora oscura era Pell, che da settembre del 2014 aveva raccolto corposi dossier sugli affari di alti prelati e faccendieri.
Dalle maglie della segretezza vaticana, due anni dopo, all’inizio dell’estate del 2019, sono filtrati particolari più inquietanti. Sono spuntate voci che parlavano di strani giri di soldi, con bonifici partiti da Reggio Calabria, transitati su un conto a Roma e dirottati in Australia. Il periodo, secondo queste indiscrezioni, era l’aprile del 2017. E il tam tam accreditava una cifra in dollari corrispondente a circa 420 mila euro, senza precisare se si avesse sentore di altri versamenti. La «pista australiana» che sta venendo alla superficie rimanda a questi veleni.
Impone di chiedersi come mai per oltre due anni non se ne sia saputo nulla; chi abbia architettato un’operazione dai contorni loschi; che cosa si nasconda nelle pieghe della versione di chi scarica su questo o quel cardinale o monsignore le responsabilità. E soprattutto, che cosa sia stato riferito a Francesco in quel periodo dai suoi collaboratori. Il siluramento del cardinale Giovanni Angelo Becciu, per sei anni «ministro dell’interno» di Francesco, è stato motivato ufficiosamente dai comportamenti «familisti»: soldi sottratti all’Obolo di San Pietro per favorire un fratello.
Ma a questo punto non è chiaro se esistano ragioni più gravi che giustifichino una decisione perfino umiliante. Si ripropone il tema doloroso della selezione dei collaboratori papali; e in parallelo il difetto di trasparenza che caratterizza le vicende vaticane. Nella decisione radicale di togliere a Becciu anche il cardinalato si indovina una reazione di Bergoglio dettata dalla delusione e forse dall’esasperazione di chi si è sentito ingannato. La storia è ancora in incubazione, anche perché ritorna in queste ore in Italia un Pell assolto con formula piena: arrivo anticipato rispetto a quello che lo dava a Roma a dicembre. Ma forse è solo una coincidenza.