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 2020  ottobre 02 Venerdì calendario

Intervista a Caroline Criado Perez

C’è un movimento femminista che combatte per l’uguaglianza a gran voce. Ce n’è un altro che alle manifestazioni preferisce i fatti, agli slogan la realtà dei dati. Caroline Criado Perez, attivista, giornalista e scrittrice, fa parte di entrambi i gruppi, ma con il libro Invisibili ha portato il tema dei diritti delle donne a un altro livello. Si tratta di un’opera che, per il Financial Times, «tutti gli uomini dovrebbero leggere». Grazie a una campagna di crowdfunding, a Westminster è stata distribuita a ogni deputato. Tra i fan, ci sono Michelle Obama e la premier Nicola Sturgeon, che in Scozia ha creato una commissione con il compito di studiare la rappresentazione delle donne nei modelli utilizzati non solo nella medicina, ma anche nella vita quotidiana: perché, come ha evidenziato Criado Perez, la discriminazione non si manifesta solo nel divario degli stipendi, nell’accesso ai ranghi dirigenziali, nella cura dei figli e degli anziani, nella politica.

Se ha combattuto altre importanti battaglie — dalla statua della suffragista Millicent Fawcett a Westminster, primo monumento di una donna in Parlamento, al viso di Jane Austen sulle banconote da dieci sterline, al meccanismo per denunciare abusi su Twitter — è con questo libro che Criado Perez ha sdoganato il femminismo: il diverso trattamento di uomini e di donne non è più un argomento di nicchia, è un tema con il quale si vince il titolo di libro scientifico dell’anno (indetto dalla Royal Institution), di business book dell’anno (Financial Times e McKinsey ), di libro di saggistica dell’anno ( Times) e libro del decennio ( Sunday Times ). Invisibili mostra che le vittime della discriminazione, conscia o inconscia, non sono solo le donne, ma la società. Il lettore, però, si prepari, perché leggere significa arrabbiarsi. «Ah, la furia dell’ingiustizia», spiega l’autrice dal divano di casa, accanto al cane Poppy. «Ho passato tre anni in preda a una rabbia furente mentre scrivevo il libro».
Qual è secondo lei l’aspetto più insidioso della discriminazione e quindi il primo da sconfiggere?
«Partirei dal fatto che l’esperienza maschile è ancora considerata universale, anche se è applicabile solo al 50 per cento della popolazione. È un problema che è particolarmente pericoloso nella sfera scientifica. È ancora raro, ad esempio, che uno studio differenzi tra uomini e donne, invece è fondamentale che diventi la norma fornire dati disaggregati per sesso. Purtroppo ancora oggi se chiedi come mai non viene specificato il sesso dei soggetti — spesso, se viene specificato, per la maggioranza si tratta di uomini — la risposta è che le donne “sono troppo complicate a livello fisiologico, che gli ormoni interferiscono’‘. Mi è capitato ancora pochi giorni fa con uno studio finlandese sugli effetti dell’alcol. Alcune riviste scientifiche, adesso, hanno come requisito che la ricerca presenti dati disaggregati, ma si tratta di una minoranza. È un problema che, come dicevamo prima, non riguarda solo le donne. Studiando meglio, ad esempio, la risposta immunitaria delle donne si potrebbe arrivare a capire meglio alcune malattie. Perché, ad esempio, sembrano essere più protette dal Covid? È un ostacolo per tutti».
Il suo libro ha raggiunto un pubblico enorme, in Gran Bretagna e all’estero. È stato tradotto in 26 lingue. Le sembra che stia innescando qualche cambiamento?
«Il problema della discriminazione nei dati non è un argomento nuovo e non sono stata io a identificarlo per prima. La mia speranza è che il libro contribuisca a renderlo più chiaro. Certo, sarei felice, ad esempio, se le auto venissero testate anche su autiste e passeggere donne, non solo con manichini che rappresentano il maschio medio, come invece avviene tuttora, così come sarei felice che chi si occupa di urbanistica pensasse non solo alla giornata tipica dell’uomo, ma anche a quella della donna, a chi ha i figli da portare a scuola, ad esempio, o non si sente sicura a tornare a casa se la strada è buia. È un messaggio importante e spero, con il libro, di aver dimostrato che spesso, se ci sono situazioni o oggetti che per le donne sono scomodi, è perché le loro necessità non sono state prese in considerazione».
L’ha sorpresa l’accoglienza che il libro ha ricevuto?
«Devo dire che ero preoccupata. Sapevo che non mi sarebbe stato perdonato il minimo errore. Sono dopotutto una donna che scrive di femminismo in un ambiente, quello dei dati, che è ancora prevalentemente maschile. Per la maggior parte la reazione è stata positiva. Devo confessare che recentemente ho ricevuto sui social un po’ di insulti da un gruppetto di uomini italiani. Ce l’avevano particolarmente con ciò che ho scritto sui telefoni cellulari, ovvero che sono studiati per una mano maschile».
In passato sui social ha ricevuto minacce terrificanti, delle quali si è occupata la polizia.
«Sì, c’è ancora molto a fare sui social. Per un periodo ho avuto paura. Ora sto molto attenta alle informazioni che do su me stessa, i miei spostamenti, il mio indirizzo».
Qual è stato il tragitto che l’ha portata al femminismo?
«Da adolescente non solo non ero femminista, ero contraria al femminismo. Mi sembrava che dipingesse le donne in una cattiva luce, che ci facesse sembrare deboli. Credevo che spesso la colpa fosse delle donne. Accettavo gli stereotipi: la donna superficiale, ossessionata da temi triviali, poco intelligente. Questo mi permette oggi di capire le donne che ancora la pensano così. Sono, come lo ero io, il prodotto di una società dove la rappresentazione delle donne è ancora all’infanzia. Solo che oggi ne vedo e capisco l’impatto. C’è un libro che per me ha cambiato tutto. Sono andata all’università tardi, a 25 anni (Oxford, letteratura inglese, e dopo la London School of Economics) e questo è stato un bene: ho affrontato lo studio con maggiore serietà. Mi è capitato di leggere Femminismo e teoria linguistica, di Deborah Cameron, in cui si parla dell’impatto di parole come “genere umano” (mankind in inglese ndr) che essendo maschili ci portano a pensare all’uomo e alla sua universalità. Mi sono resa conto che era un errore che facevo anch’io, che in tutto quello che mi veniva propinato l’idea era sempre che l’uomo fosse la figura cui ambire. È lì che ho capito che bisognava rivedere tutto».
Come?
«Ah. È la domanda che mi sento fare più frequentemente da quando ho scritto Invisibili! Sto scrivendo un altro libro, Now you see us (Ora ci vedete) che sarà una guida pratica a come raggiungere un migliore equilibrio».