Avvenire, 2 ottobre 2020
Si fa presto a dire benedizione
Con il refrain “la scimmia nuda balla”, Francesco Gabbani ha sdoganato alle masse pop il nome di Desmond Morris, autore nel 1967 del best seller La scimmia nuda. Lo zoologo ed etologo inglese (1928) si è più volte dedicato all’attività estetica che caratterizza la specie umana (nel 2013 ha pubblicato ad esempio La scimmia artistica) ed è egli stesso pittore di stampo surrealista. In In posa. L’arte e il linguaggio del corpo pubblicato da Johan& Levi (traduzione di Ester Borgese, pagine 320, euro 32,00), di cui pubblichiamo in questa pagina parti dal capitolo “Benedizioni”, fa del panorama delle opere d’arte un campo di indagine per indagare il repertorio, complesso e cangiante, della comunicazione non verbale.
Se alcuni gesti appaiono universalmente diffusi, per molti altri si tratta di codici legati a particolari contesti sociali e culturali (su scale anche molto diverse) e a convenzioni. In ogni caso posture e gestualità, se correttamente interpretate – tanto dall’artista quanto dall’osservatore – rendono di fatto un dipinto o una scultura “parlanti”.
Su questi temi Morris era già intervenuto nel 1977 con L’uomo e i suoi gesti, concentrato però sul comportamento umano nella quotidianità. Qui si avventura in una dimensione che è già a suo modo uno studio, una codificazione del gesto – allo stesso modo in cui lo è un vocabolario per la lingua – perché l’artista deve scegliere la retorica più idonea ed efficace per ottenere il risultato voluto. Saluti, lo status sociale, gli insulti, ma anche la scaramanzia sono tra i campi di indagine, svelando anche qualche curiosità (il saluto romano fascista, ad esempio, non era praticato nell’antica Roma ma è frutto di un equivoco generatosi tra Sette e Ottocento), o ancora la nudità, ambito sul quale l’atteggiamento sociale cambia in modo vistoso a seconda di cultura, contesto ed epoca, fino allo sbadiglio e al sonno.
(A.Bel.)
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Oggi, l’atto di dare o ricevere una benedizione svolge un ruolo marginale nella vita quotidiana e, nella maggior parte dei casi, è riservato alle cerimonie religiose. Tuttavia, compare spesso nelle opere d’arte antiche, dove alcune sottili differenze nei gesti che compongono l’azione spesso confondono lo spettatore contemporaneo.
La forma di benedizione più semplice è l’imposizione delle mani, una pratica perlopiù associata alla cristianità. Poiché questa forma implica un contatto fisico tra due persone, era forse inevitabile che se ne sviluppasse una variante adatta a una scala più ampia, in modo che un intero gruppo potesse essere benedetto con una sola azione. Questo risultato fu ottenuto attraverso una forma di benedizione in cui si iniziava a eseguire l’imposizione delle mani, ma poi ci s’interrompeva prima che avvenisse il contatto fisico. Il palmo o i palmi venivano sollevati e poi veniva dispensata la benedizione verbale, mentre il braccio o entrambe le braccia restavano a mezz’aria. Forse si avvertì la necessità di cambiare in qualche modo la posizione della mano per rendere più specifica l’azione, mantenendo alcune dita dritte e altre leggermente piegate o curve. Nell’ambito religioso nacquero delle complicazioni quando determinati gruppi di cristiani adottarono posizioni delle dita leggermente diverse. Nelle opere antiche, gli artisti prestarono molta attenzione a queste piccole variazioni. Quando nell’XI secolo la Chiesa cristiana si divise in due – Chiesa d’Oriente e d’Occidente, ortodossa e latina –, la Chiesa cattolica romana, adottò un segno di benedizione che consisteva nel tenere dritti il pollice, l’indice e il medio, e nel piegare le altre dita, con il palmo rivolto in avanti. Secondo l’interpretazione ufficiale, le tre dita distese simboleggiano la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo. Tuttavia, di recente è stata avanzata una spiegazione alternativa, secondo cui all’origine di questo gesto ci sarebbero delle ragioni mediche. Secondo Bennett Futterman, professore americano di anatomia, deriverebbe da un problema al nervo della mano del primo papa, san Pietro, che non riusciva a estendere appieno tutte le dita. Seguendo questa interpretazione, i primi cristiani avrebbero copiato il gesto della benedizione con la mano piatta dai sommi sacerdoti ebraici, tuttavia un danno al nervo ulnare avrebbe impedito l’estensione dell’anulare e del mignolo a Pietro. I papi successivi, per rispetto del fondatore della Chiesa, avrebbero poi adottato la stessa forma di benedizione.
In seguito allo scisma della Chiesa cristiana, la Chiesa ortodossa adottò una propria versione del segno di benedizione. Si trattava di un gesto complesso in cui ogni dito veniva posizionato in modo particolare per formare il monogramma in codice per “Gesù Cristo”. Il monogramma era IC XC, un’abbreviazione del nome greco di Gesù. Il codice era il seguente: I = indice disteso; C = medio ricurvo; X = pollice e anulare incrociati; C = mignolo ricurvo. Nella pratica, questo gesto sembra troppo elaborato per un uso quotidiano e, a giudicare dal modo in cui è spesso rappresentato nell’arte della Chiesa ortodossa greca, è stato semplificato in un segno circolare fatto con l’unione dei polpastrelli di pollice e anulare. Quella che vediamo nell’arte è una versione ridotta dell’antico segno codificato, ma che si distingue comunque dalla benedizione latina.