Sette, 2 ottobre 2020
1QQAN40 QQAN30 Lunga intervista a Luciano Ligabue
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Piacere, Luciano Ligabue. Musicista, scrittore, regista: e Questa è la mia vita. Come biglietto da visita potrebbe anche andar bene. Ma se poi venisse voglia di saperne di più dei suoi 30 anni di carriera (e 60 di vita), allora quelle poche righe su un piccolo rettangolo di carta non sarebbero più sufficienti a soddisfare tutte le curiosità su chi, Con la scusa del rock’n’roll, è riuscito ad accendere le Luci d’America in un borgo della provincia emiliana. Occorrerebbero, ad esempio, 360 pagine di aneddoti e stati d’animo per capire come mai all’improvviso «stavo per mollare tutto perché non mi sentivo adeguato a quel tipo di successo», oppure perché «ho vissuto il mio divorzio come un profondo fallimento».
Chissà, forse sarebbe necessaria un’autobiografia artistica per i trent’anni di carriera, la prima (scritta a quattro mani con Massimo Cotto), arricchita con un mucchio di foto che vanno dai primi anni di vita del Liga all’ultimo tour dell’anno scorso. Probabilmente ci sarebbero state anche quelle del mega concerto alla Rcf Arena di Reggio Emilia, purtroppo rimandato al 19 giugno del 2021 a causa dell’emergenza sanitaria. Per ripagare in parte i centomila che già avevano comprato il biglietto, di recente Ligabue è apparso a sorpresa su Rai1 (in collegamento proprio da Campovolo) per regalare al suo pubblico l’inedito La ragazza dei tuoi sogni.
L’ha battezzata È andata così (Mondadori) questa raccolta di memorie, come il brano scritto per Loredana Bertè. «A un certo punto mi sono guardato indietro e mi è venuta voglia di mettere un po’ di ordine in tutto quello che ho fatto. Ma forse anche per fare un po’ d’ordine in me stesso», racconta Ligabue seduto in una saletta del suo studio di registrazione a Correggio, città natale che non ha mai smesso di fornirgli l’ispirazione per un repertorio che ammonta a oltre 190 canzoni pubblicate. Una sfilza di titoli e strofe da «rispedire» al mittente sotto forma di domande da rivolgere a questo (ex?) ragazzo tanto timido che poi ha deciso di diventare una rockstar. E che in vena di confidenze confessa di aver «sentito il bisogno forte di venir via da una religione che si basa soprattutto sul dolore» e di non riuscire più a vedere il suo secondo film Da zero a dieci perché «durante la lavorazione è morto mio padre».
Come mai all’apice della sua carriera aveva pensato di ritirarsi? Mancava La forza della banda?
«No, il problema non era quello. È che non mi sentivo capace di maneggiare le conseguenze che arrivavano da un certo tipo di successo. Poi avvertivo che era cambiata la percezione che gli altri avevano di me: da un momento all’altro chi mi avvicinava non parlava più con me ma con l’idea che si era fatto di me. E inoltre non ero pronto ai paparazzi; al pensiero che chiunque poteva dire qualcosa su di me; a fare battaglie legali per cercare di proteggere la mia ex moglie che non voleva apparire sui giornali. Fortunatamente alla fine si è fatta strada la paura che stare senza concerti mi avrebbe fatto davvero troppo male e così sono andato avanti».
Vivo morto o X, d’accordo. Ma anche salvato, da sua madre. Che per ben due volte le ha di fatto ridato la vita.
«In realtà è capitato per tre volte. La prima: la levatrice, che si era presa la responsabilità di voler fare il parto in casa, si accorse che il cordone ombelicale mi si era attorcigliato intorno alla fronte e mi impediva di uscire. Finalmente con un dito mi liberò e così mia madre, quando sembrava già tardi, con le ultime spinte mi mise al mondo. La seconda: a un anno e mezzo avevo la pertosse ed era così cattiva che, con i colpi che davo, mi era venuta l’appendicite. Ma nessuno se n’era accorto. Io continuavo a piangere e mia madre mi portò in farmacia per trovare qualche rimedio. Lì incrociò un medico che mi fece una visita sommaria, sufficiente per portarmi in ospedale d’urgenza perché era già diventata peritonite. Infine l’ultima: banale operazione alle tonsille, ma mia madre decise di passare la notte con me contro il volere dei sanitari. Ad un certo punto lei cominciò a dire: “Guardate che non sta bene…”. Ma gli infermieri le ripetevano che non era nulla, di stare tranquilla, che il giorno dopo sarei stato come nuovo. Non la convinsero e andò a chiamare un medico per fargli vedere le mie unghie che stavano iniziando a ingrigirsi. Il dottore mi dette uno scossone e io iniziai a vomitare sangue: c’era un’emorragia in corso. Di nuovo di corsa in sala operatoria per un secondo intervento e io rimasi, credo sia un record assoluto per un’operazione alle tonsille, 17 giorni in ospedale. E questa è la Rina, mia madre».
In tutti questi anni, qual è la cosa più preziosa che ha messo via?
«Niente, porto tutto con me. Tengo ogni cosa bene in caldo perché credo di essere consapevole della fortuna che ho avuto e che ho. In questi trent’anni ho fatto e realizzato tanto. E ho potuto godere di un affetto così grande che per me, ancora oggi, è meravigliosamente inconcepibile».
Continui bollettini in tv sul propagarsi dei contagi da Covid, il Papa in diretta da una piazza San Pietro deserta: la sua A che ora è la fine del mondo? del 1994 oggi suona vagamente profetica...
«Quella canzone era molto ironica, nata pensando al fatto che in quel momento, con Berlusconi che era stato eletto per la prima volta, si sosteneva che la televisione non avesse contato, io invece ero convinto del contrario. Tornando all’attualità, è vero che questo è un momento in cui regnano spavento e preoccupazione, ma io continuo a vederci un’occasione che rischiamo di perdere. Abbiamo l’opportunità di una riconsiderazione profonda. Non so cosa possa capitare di più clamoroso di questa pandemia per metterci nella condizione di ripensare un po’ alle priorità, al tempo che decidiamo di vivere e a come vogliamo viverlo».
Di fronte a quale ingiustizia ha perso le parole?
«Per restare sull’emergenza sanitaria, l’evidenza della forbice tra chi ha davvero troppo e chi non ha niente. E quando andremo a fare i conti con quello che ha portato via questo virus, credo che ci saranno turbolenze importanti».
L’ultima volta che si è sorpreso a chiedere: Hai un momento, Dio?
«È da parecchio che non lo faccio: sono stato credente, ma ad un certo punto ho sentito il bisogno forte di venir via da una religione che si basa soprattutto sul dolore — il suo simbolo principale è pur sempre un ragazzo inchiodato mani e piedi su una croce con una corona di spine sulla testa — e sul senso di colpa di cui io sono abbondantemente popolato, fin troppo, e perciò avevo bisogno di poter credere con più leggerezza. Quello del “mangiate il mio corpo, bevete il mio sangue” è stato sempre un rito che mi ha messo i brividi. Tuttavia continuo ad avere un forte bisogno di spiritualità, non sempre da indirizzare verso un’entità precisa, a volte anche da rivolgere all’universo e alle sue norme».
Qual è stato il suo giorno dei giorni?
«Non ce n’è uno in particolare, però ci sono due film che raccontano due eventi opposti, lo si legge nell’atmosfera delle sequenze. Mentre stavo girando Radiofreccia è nato Lenny, il mio primo figlio. Parto prematuro, che ci ha colti di sorpresa costringendoci a sospendere le riprese per alcuni giorni. E credo addirittura che quell’episodio sia finito in qualche modo nel clima del racconto. Resta il fatto che in Radiofreccia si respira una certa vitalità, anche se il protagonista muore. Durante le riprese dell’altro film, invece, mi è arrivata la notizia della malattia di mio padre e che poi è morto prima che finissi la post produzione. E Da zero a dieci non posso più guardarlo. L’ultima volta è stato il giorno della presentazione a Cannes e lì ho capito che non lo avrei più rivisto».
C’è un modo di fare politica che Nel tempo non avrebbe mai voluto veder cambiare?
«Non sono così attaccato ad un’idea fissa. Si sa che vengo da una famiglia comunista, l’ambiente qui intorno era, negli anni 60-70, assolutamente così, quasi con percentuali bulgare. A Correggio, il centro cittadino è letteralmente tagliato a metà da corso Mazzini che all’epoca divideva don Camillo da Peppone, si stava o di qua o di là. Io seguivo i miei genitori, ma poi andavo anche a messa. Ho sempre avuto le mie simpatie, ho sempre votato a sinistra, ma questo non ha mai voluto dire aderire ad un dogma, essere allineato. Ecco, se c’è una cosa che mi dispiace è aver visto svanire quell’adesione popolare al Pci che gli altri partiti non avevano. Lo vedevo qui alla Festa dell’Unità quando tante persone prendevano le ferie per lavorare come dei matti, senza venir pagati, ma semplicemente perché comunque volevano contribuire ad una causa. C’era proprio una fiducia illimitata in quella cosa che sicuramente non andava di pari passo con l’idea del comunismo sovietico».
Quando si ha qualche anno in più sulla carta d’identità e Certe notti si finisce per restare soli, qual è la paura più grande?
«Di sprecare il mio tempo. E tante volte mi rimprovero perché invece dovrei sciuparne un po’ di più. È chiaro però che le paure più profonde hanno sempre a che fare con i tuoi cari. Ed io ho un forte senso della famiglia, vengo da una speciale, felice sia pure con pochi mezzi. Il modello di mio padre e mia madre è quello di una coppia serena, che è stata insieme tutta la vita. Sono cresciuto avendo come riferimento quel tipo di rapporto, e perciò quando ho divorziato l’ho vissuto come un fallimento. Inoltre resto attaccato alle mie radici, e infatti vivo a Correggio, coltivo i miei affetti qui e dunque in genere le mie paure, che poi sono più preoccupazioni, hanno a che fare con loro».
Il giorno di dolore che le è rimasto appiccicato addosso.
«È sempre legato alla morte di mio padre, un evento piuttosto importante. E siccome non poteva che andarsene in modo pirotecnico, il giorno in cui è successo non lo definirei uno dei tanti. Lui era tornato in ospedale e il primario ci aveva detto di prepararci al peggio. Mio fratello, prima che la situazione precipitasse, aveva organizzato una riunione del fan club a Modena. E la “sentenza” di circa un mese di vita il medico ce l’aveva data due giorni prima del raduno. Impossibile comunicare rapidamente a settemila ragazzi provenienti da tutta Italia che il concerto sarebbe saltato. Decidemmo quindi di procedere. La mattina dell’evento andai a Modena per il soundcheck e mentre stavo per salire sul palco arrivò la telefonata di mia madre che mi avvisava di raggiungerla subito all’ospedale di Guastalla. Mio padre se ne andò prima che arrivassi, in barba al tipo che ci aveva predetto un mese di calvario. Nel frattempo il raduno era andato avanti, senza di me ovviamente. Al mio posto suonarono i ragazzi dei gruppi che si erano dati appuntamento lì. E il pubblico iniziò a cantare tutti i miei brani pensando a mio padre. È stato un bruttissimo, ma anche per certi versi bellissimo giorno di dolore».
Chi è La ragazza dei tuoi sogni?
«Non esiste, altrimenti non sarebbe quella dei sogni. Per fortuna invece esistono quelle reali, le cui qualità ogni tanto combaciano con i nostri sogni. Quelle vere poi ti permettono anche di poter dire: beh, finché non trovo quella dei miei sogni continuo a cercare in giro».
Per lei L’amore conta ancora?
«Certo che sì. Però, più che nella passione per una persona, io credo in quella condizione speciale che ti fa vedere le cose, il mondo, con una luce diversa, un’apertura diversa. E che ti fa vivere in un modo migliore».
La sua non è certo Una vita da mediano: scelga un altro ruolo.
«Azzardo, fantasista. Perché quando è in campo non pensa razionalmente al calcio che deve esprimere ma lo gioca e basta. Cercando, se possibile, di strappare un ooh! al pubblico».