La Stampa, 2 ottobre 2020
Biografia di Artemisia Gentileschi, influencer del 600
Artemisia Gentileschi icona di resilienza e di coraggio al femminile. La pittrice ribelle, che si ritrae nei quadri come modella di sé stessa per meglio sponsorizzare la propria opera (a Londra qualcuno ha già azzardato un paragone con le moderne influencer, ribattezzandola «la Beyoncé dell’arte»). La giovane che subisce sulla propria pelle le conseguenze di un processo per stupro, dove da vittima diventa prima corpo del reato e poi puttana adescatrice di uomini, per la solita ragione (ora come allora) per cui sono cose che non succedono se non te le vai a cercare, quindi se succedono a te sei una poco di buono.
Artemisia è tutto questo e molto altro e la mostra alla National Gallery di Londra la consacra come prima donna che abbia mai avuto l’onore di avere una esposizione tutta sua (da domani, fino al 24 gennaio 2021). La mostra, nata dall’acquisizione nel 2018 da parte della National Gallery del suo Autoritratto come Santa Caterina di Alessandria (1615-1617), primo dipinto dell’artista a entrare in una collezione pubblica britannica, doveva inaugurarsi a primavera, ma il Covid ha fatto slittare l’evento. E secondo le parole della curatrice Letizia Treves e del direttore Gabriele Finaldi, questo è un messaggio che va letto come una delle grandi lezioni di Artemisia, cioè superare le situazioni più difficili grazie al talento, la determinazione e il desiderio.
La mostra è costruita seguendo un percorso cronologico e di luoghi dove «la pittora» ha esercitato la sua arte (Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Londra, una stanza per ogni città). Filo conduttore la sua visione al femminile e la narrazione di storie con protagoniste donne che si ribellano alle brame e alle violenze degli uomini. I soggetti sono ispirati a temi storici, mitologici, biblici, ma al centro della scena c’è sempre l’eroina vittima della cupidigia dell’uomo. E questo, per chi conosce la affascinante storia di Artemisia (un consiglio di lettura: il bel libro di Elisabetta Rasy Le disobbedienti – storie di donne che hanno cambiato l’arte, Mondadori) ha molto di autobiografico. Cresciuta nella bottega del padre Orazio Gentileschi, apprezzato pittore della Roma di quegli anni – siamo a cavallo tra Cinque e Seicento – amico di Caravaggio, rissoso e terragno come i suoi compari di pennello e di bevute, la ragazza ha appena 17 anni quando viene stuprata da uno di questi, Agostino Tassi.
La denuncia di Orazio contro Agostino per aver «deflorato» la figlia si trasforma in un processo contro Artemisia invece che contro lo stupratore. Lui viene condannato, ma lei viene torturata per estorcerle la verità. E il marchio dell’infamia la costringerà a un matrimonio riparatore e a dover cambiare città. Arrivata a Firenze, finalmente più libera e indipendente, imparerà a leggere e scrivere (cosa che a casa del padre le era stata negata) e sarà la prima donna mai ammessa all’Accademia delle Belle Arti (siamo nel 1616, Artemisia ha 23 anni).
A Londra sono in mostra gli atti del famoso processo, provenienti dall’Archivio di Stato di Roma, e fa un certo effetto vedere nero su bianco le sue parole entrate nelle frasi simbolo della storia del femminismo («È vero è vero è vero tutto quello che ho detto»).
L’esposizione si apre con Susanna e i vecchioni del 1610, il primo dipinto datato e attribuito ad Artemisia, che lo esegue all’età di 17 anni: la fanciulla spiata dai due anziani mentre nuda si appresta a fare il bagno. E si chiude con l’altra celebre Susanna e i vecchioni del 1652, l’ultimo dipinto conosciuto dell’artista ormai quasi sessantenne.
Tra queste due tele iconiche, ci sono una trentina di opere, altrettanti manifesti femministi, secondo il principio che la stessa Artemisia scriveva a un collezionista nel 1649: «Farò vedere alla sua signoria cosa può fare una donna». Il filo conduttore è quello che si diceva: donne eroine ma anche ribelle e violente, baluardo contro la volontà di dominio maschile. Ci sono Giuditta che decapita Oloferne, Giuditta e la sua ancella, Cleopatra, Danae, Lucrezia (suicida dopo essere stata stuprata da Sesto Tarquinio), Giale e Sisara (altra eroina biblica che pianta un chiodo in testa al guerriero). E poi c’è il capolavoro dei capolavori, il celeberrimo Autoritratto come allegoria della pittura, dove l’artista si dipinge come musa della pittura, che è il suggello finale del significato ultimo della mostra, perché nessun pittore uomo avrebbe potuto farsi un autoritratto del genere.
Fa parte della collezione della regina Elisabetta, e Artemisia lo realizzò tra il 1638-39 durante il suo soggiorno a Londra, dove il padre Orazio era diventato già da una decina d’anni pittore di corte di Carlo I e che rivide dopo venti anni prima della morte di lui nel 1939.