Lei è stato il primo africano a ricevere il Nobel per la letteratura.
Che cosa ha rappresentato quel premio?
«Mi ha colpito più il significato che gli altri hanno attribuito al mio Nobel rispetto a quello che ha significato per me. Certamente si tratta di un riconoscimento prestigioso, ma l’assalto dei media, le critiche, le aspettative che ha scatenato nei miei confronti mi hanno dato fastidio».
Che cosa avrebbe voluto?
«Ricevere il premio e poi andare via.
Così, semplicemente. Non ero pronto ad accettare e poi ad affrontare quello che gli altri si aspettavano che io facessi. L’anonimato è qualcosa che spesso sottovalutiamo e non ci rendiamo conto di quanto sia importante fino a quando non lo perdiamo».
Il suo discorso era dedicato a Nelson Mandela. La figura del grande leader sudafricano è centrale anche per le nuove generazioni?
«Rappresenta qualcosa di cui noi non saremo mai capaci, la grandezza e la magnanimità. È un esempio per i giovani, per i rivoluzionari, per i credenti e i non credenti».
Mandela torna nelle sue poesie.
Nell’ “Ode laica per Chibok e Leah” incontra idealmente una delle ragazze rapite da Boko Haram in un villaggio del nordest della Nigeria.
Qual è la radice dell’intolleranza religiosa nel suo Paese?
«Non esiste fanatismo nella tradizione religiosa degli Orisha, le divinità degli Yoruba, il mio popolo.
Quelli di Boko Haram sono barbari, il loro fondamentalismo si unisce all’avidità scatenata dal petrolio e ai tentativi di manipolazione dei politici corrotti. Se il fondamentalismo fosse solo un tema ideologico si potrebbe discutere dei rispettivi punti di vista e arrivare a una forma di convivenza. Ma ormai siamo in una situazione apocalittica, di vita o di morte».
La parola può fermare la violenza?
«Dovrebbe esprimere una condanna ferma. Eppure spesso la lingua risulta debole, perfino viscida».
Si riferisce al politicamente corretto?
«Questo tipo di linguaggio dovrebbe essere stato relegato ormai da tempo al pattume delle strategie di riconciliazione. Non c’è un termine edulcorato per descrivere il linciaggio. Questo è un tema molto legato alla storia degli Stati Uniti dove c’è sempre stato un nero da impiccare senza che poi ci fossero delle conseguenze».
Nella sua nuova raccolta di saggi “Al di là dell’estetica” (Jaca Book) lega l’arte alla spiritualità. Perché?
«L’uomo non esiste solo per riempirsi la pancia, c’è qualcosa che lo rende migliore. L’arte è una risposta al nostro bisogno di spiritualità».
Ritiene che i musei occidentali abbiano ripetuto nelle loro collezioni i meccanismi di appropriazione culturale del periodo coloniale?
«I missionari condannavano l’arte africana come qualcosa di demoniaco e poi se ne appropriavano, la portavano in Europa e la mettevano nei musei.
Quelle opere devono tornare in Africa, la restituzione, e quindi la riparazione, è qualcosa che ci definisce come civiltà, fa parte del processo con cui possiamo guarire dalle ferite del passato».
Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Non credo che la pol itica sia un materiale speciale per la mia arte, non più di altre cose. Io mi concentro sull’esplorazione dell’umanità, sulle vicissitudini degli uomini».