la Repubblica, 2 ottobre 2020
Quaranta giorni alle elezioni Usa
Mancano quaranta giorni alla conclusione della campagna presidenziale americana più strana di sempre. In questa epoca tanto mutevole, l’unica tendenza apparentemente stabile è quella registrata dai sondaggi nazionali che attribuiscono a Biden un margine di vantaggio superiore a quello di qualsiasi altro candidato dal 1988 (data della schiacciante vittoria di Bush) a oggi. E che lo danno sistematicamente in vantaggio su Trump negli Stati in bilico. Ma quaranta giorni, nella politica americana, sono un’eternità. Avendo partecipato alla campagna presidenziale di John Kerry nel 2004 ricordo bene come, a cinque giorni dalle elezioni e con i nostri sondaggi che ci davano in vantaggio e destinati a trionfare sul presidente in carica, la diffusione di un video di Osama bin Laden mutò le dinamiche in atto consegnando a Bush la presidenza sulla scia della vittoria in uno Stato: l’Ohio. Nelle settimane a venire dovremmo tenere d’occhio sei possibili “sorprese” che potrebbero rivelarsi determinanti. Per cominciare, occorre fare attenzione agli Stati in bilico, di cui Trump, per vincere, dovrà ridurre il numero. Alle scorse elezioni Trump era riuscito ad aggiudicarsi (seppur con un margine ristretto) i tre importanti Stati “indecisi”. Oggi, però, grazie al candidato democratico, il numero degli Stati in bilico è aumentato. E questa per Trump non è certo una buona notizia. A Wisconsin, Michigan e Pennsylvania si sono infatti uniti Florida, Georgia, North Carolina, Texas, Arizona, Iowa, Nevada e Colorado. Tutti Stati dove i due candidati sono testa a testa, o che vedono Biden in lieve vantaggio. Se per la fine di ottobre il candidato repubblicano sarà ancora impegnato ad assicurarsi la vittoria in Texas e Georgia – due Stati storicamente repubblicani – anziché a tentare di bissare i successi di quattro anni fa in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, difficilmente vincerà di nuovo le elezioni. Secondo: se la tendenza in atto venisse confermata, Trump si troverà presto a giocare in difesa in un numero crescente di Stati. E, per di più, con meno fondi a disposizione. Il presidente ha infatti perso il vantaggio economico che un tempo vantava sui democratici, i quali, grazie a un agosto da record, hanno incassato donazioni per trecentonovanta milioni di dollari e dispongono adesso di quasi il doppio dei fondi rispetto ai repubblicani. Terzo punto: quale impatto avrà sul voto la battaglia per la Corte suprema? Nel 2016 la diffusione di un “elenco” di giuristi conservatori che Trump avrebbe preso in considerazione per colmare il vuoto venutosi a creare con la morte di Antonin Scalia indusse i repubblicani rimasti sino a quel momento indifferenti ad accorrere alle urne e dargli il proprio voto. A pagare il prezzo di questa dinamica fu il candidato alla Corte Suprema che era stato scelto dal presidente Obama a marzo del 2016: una persona stimata che i repubblicani non degnarono nemmeno di un’udienza di conferma. Adesso, dopo la morte di Ginsburg, Trump e il leader della maggioranza al Senato McConnell hanno dichiarato di voler venir meno a quanto da loro sostenuto nel 2016 per imporre un candidato conservatore alla vigilia delle elezioni presidenziali. Questa volta, però, la loro decisione potrebbe avere un esito diverso. I democratici appaiono decisi a “vendicarsi”, recandosi alle urne in massa come fecero nel 1992, “l’anno della donna”, dopo la controversa battaglia per la candidatura di Clarence Thomas. In molti oggi ritengono che a fare le spese del tentativo di McConnell di affrettare la nomina di un candidato conservatore potrebbero essere i senatori repubblicani, la cui fragile maggioranza appare in bilico e che gli elettori (la maggioranza dei quali ritiene che ad eleggere il prossimo giudice della Corte suprema dovrà essere il presidente entrante) potrebbero “punire” nel caso in cui decidessero di applicare ipocritamente un peso e una misura diversi da quelli sostenuti nel 2016. Anche i tre dibattiti presidenziali potrebbero alterare il corso della campagna. Aggiudicarsi un dibattito è importante: nel 2004, dopo una convincente vittoria nel primo dibattito con Bush, John Kerry colmò il divario di sette punti che lo separava dall’avversario, raggiungendolo nei sondaggi. E nel 2012 Mitt Romney giunse quasi a un testa a testa con il presidente Obama. Quarto: attenzione a una nuova, possibile “sorpresa d’ottobre": qualche rivelazione dell’ultima ora, quale potrebbe essere ad esempio l’annuncio della creazione di un vaccino efficace contro il Covid-19. Quinto: secondo una tendenza consolidata, ancorché effimera, ogni qualvolta in uno Stato si registrano dei disordini il gradimento di Trump cresce – per poco tempo. Se alla viglia delle elezioni scoppiassero nuovi scontri razziali, per il presidente in carica sarebbe una manna. Sesto, e ultimo: l’enorme incertezza circa le modalità in base alle quali le elezioni saranno condotte. Per scongiurare i tentativi dei repubblicani di annullare il voto, soprattutto nelle comunità popolate soprattutto dalle minoranze, sono già state intentate delle cause legali. Secondo alcune ricerche la maggioranza dei repubblicani prevede di recarsi alle urne di persona, mentre la maggior parte dei democratici pensa di votare per corrispondenza. Dal momento che i voti alle urne vengono contati più rapidamente, nelle prime ore dalla chiusura dei seggi si potrebbe avere l’impressione che i repubblicani siano in vantaggio. Trump ha dichiarato i voti per corrispondenza illegali, e nel caso in cui proprio questi consegnassero la vittoria ai democratici il presidente potrebbe dichiarare invalido il risultato delle elezioni e mandare tutto a carte quarantotto. Avendo seguito tutte le elezioni politiche dal 1972 a oggi, e avendovi anche preso parte in prima persona, preferisco concludere questo mio commento così come l’ho iniziato: nella politica americana quaranta giorni sono un’eternità. Traduzione di Marzia Porta