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 2020  settembre 30 Mercoledì calendario

Intervista ad Alessandra Mastronardi

Più di quattro milioni di telespettatori non si sono persi il suo ritorno con il camice bianco, confermando che L’allieva (in onda domenica sera su Rai 1, prodotta da Rai Fiction e Endemol Shine) è un successo e Alessandra Mastronardi un’attrice tra le più amate. Eppure, giura, questa terza stagione è differente: «Abbiamo cercato di non far trasparire che è stata girata a cavallo tra il mondo pre pandemia, e quello nuovo, ma io vedo nei nostri occhi un’espressione più pesante».
Indossare il camice ha avuto un senso diverso?
«I medici erano eroi anche prima, ma è vero che ho sentito una meravigliosa responsabilità in più, un onore».
Come è nata la passione per la recitazione?
«Per caso. La mia famiglia non era molto favorevole: sono figlia di uno psicologo, mia mamma dirige una scuola universitaria. Entrambi amavano il cinema e il teatro, me lo hanno trasmesso. Ma potevo recitare solo nei fine settimana per non togliere tempo alla scuola. Non ho avuto il coraggio di scrivere sulla carta d’identità che di professione facevo l’attrice, l’ho fatto dopo i 25 anni».
Ben oltre i «Cesaroni»...
«Son stati la mia università. Mi ero iscritta al centro di cinematografia quando è arrivato quel provino. Non ho fatto scuole, sono autodidatta».
Le dispiace?
«A lungo non mi sono sentita all’altezza di definirmi un’attrice. E per diverso tempo mi è dispiaciuto essere etichettata come Eva dei Cesaroni: cercavo di crescere ma ogni volta tutti mi riportavano lì. Col tempo ho capito che non è così facile interpretare un ruolo che entra nel cuore delle persone».
C’è chi le ha fatto pesare l’essere autodidatta?
«Come no. Questo lavoro si fa con le porte in faccia... hai voglia a dire di non prenderla sul personale. All’inizio è stata dura: mi sentivo in difetto e diventavo il mio peggior nemico. Poi ho capito che non dovevo diventare la sabotatrice di me stessa. Le critiche ci saranno sempre».
Una che l’ha ferita di più?
«I provini sono un perenne banco di prova e tanti registi mi hanno fatta sentire un pesce fuor d’acqua. Ricordo una produttrice che mi disse che non sarei mai riuscita a fare cinema: “Sei un prodotto della tv e tutti sanno che possono vederti gratis”. Sono ferite che rimangono un po’ aperte».
Poi però ha recitato per Woody Allen...
«Un’esperienza indimenticabile, tra le più belle della mia vita. Sapevo di aver messo piede sul set di una colonna portante del cinema. La sua storia personale è meno semplice di come viene banalizzata. Sul set è stato meraviglioso, anche se non parla moltissimo, tanto che temevo potesse decidere di cambiarmi il giorno dopo: stava sempre zitto. Invece non diceva niente perché si fidava: ti lascia fare. Con Albanese improvvisammo una scena e lui rideva dietro il monitor. Ci disse una singola cosa a testa ma che cambiò radicalmente il sense of humor di tutto: un genio».
Ci lavorerebbe di nuovo?
«Mi piacerebbe molto».
Cosa pensa del MeToo?
«Per fortuna c’è stato anche se è stata la scoperta dell’acqua calda. Grazie a Dio il vaso di Pandora è stato scoperchiato. All’inizio, forse, si faceva di tutta l’erba un fascio ma per le donne è bene che se ne parli».
Davvero ha conosciuto Ross McCall, suo compagno, via Skype?
«In realtà l’ho conosciuto tramite amici: lui viveva a Los Angeles io a Londra e per due mesi abbiamo parlato a distanza, via Skype, appunto».
Come mai vive a Londra?
«Per alzare l’asticella. Ero stanca di alcuni meccanismi, volevo un cambiamento».
Sogni per il futuro?
«Aprire una piccola casa di produzione per dare voce a nuovi registi e attori, magari senza infliggere le bastonate ricevute. E da sempre mi vedo mamma: vorrei diventarlo».